Mariastella Gelmini, affermando che a scuola “non si parla di politica” –con la postilla un po’ equivoca “chi vuol fare politica si faccia eleggere”: dimenticando di dire cosa in certi casi si deve fare per “farsi eleggere” e per diventare ministri− non ha solo evocato un tradizionale, triste dettato di tutti i totalitarismi, ma ha dichiarato apertamente l’obiettivo del governo cui appartiene riguardo alla scuola, il senso profondo della riforma che porta il suo nome. Mi è capitato in più occasioni di ripetere che non sono d’accordo con chi liquida i provvedimenti del ministro Gelmini come una “operazione a risparmio”. Intanto non lo è: una scuola che abbassa il livello dell’offerta –cioè che cura meno gli studenti sotto il pretesto di una asettica severità− è destinata a veder crescere i propri costi; se ogni studente costa circa €7.000 ogni anno, ogni bocciato aumenta di una pari cifra il costo della propria permanenza a scuola per ogni anno che perde (quest’anno sono stati 40.000 i bocciati, che hanno ‘bruciato’ €280.000.000), fino a quando non abbandonerà la scuola, e allora avremo perduto tutto l’investimento fatto. Inutile dire che tutto questo denaro potrebbe essere meglio impiegato per farla funzionare la scuola. Ma l’obiettivo non è quello. Così come mi pare sbagliata la polemica fra i tagli alla scuola pubblica e i vantaggi alla privata. Ci sono, non c’è dubbio. Ma che la privata diventi la scuola delle ‘élite’ e la pubblica resti la scuola del popolo, sul modello dell’Istruzione inglese, in Italia mi pare solo fantasia: la scuola privata, salvo lodevoli eccezioni, resta una scuola destinata agli studenti che hanno poca voglia di lavorare e ai genitori che hanno poca voglia di perdere tempo con i figlioli. Credo che si debba cominciare a ragionare della Riforma Gelmini come dello sviluppo un po’ ‘tranchant’, un po’ leghista, della riforma Moratti, che andava in questa stessa direzione, ma con più attenzione e con qualche supporto teorico (la pedagogia cattolica tradizionalista dei ‘talenti’ e delle ‘vocazioni’, che aveva avuto la sua ragion d’essere ai tempi di don Bosco, ma ormai più di un secolo fa). In sostanza, chi ha intelligenza e volontà (talento e vocazione) diventerà eccellenza culturale e sociale; per gli altri, alfabetizzazione e collocazione rapida nel mondo del lavoro, ai livelli che meno necessitano di ‘formazione’ media o alta. Così non ci sarà più tanta parte della popolazione che rifiuta di fare i lavori che oggi fanno “gli extracomunitari”, e ci saranno meno disoccupati “italiani” –che non ci possiamo permettere− e meno stranieri a occupare posti di lavoro tornati appetibili. Gli “extracomunitari” li potremo aiutare a casa loro, mentre la nostra società tornerà a essere “monoetnica”. Non è dunque questione di risparmi o di razionalizzazioni. In controtendenza con la storia della scuola italiana degli ultimi cinquanta anni –la scuola per tutti; la scuola di qualità diffusa; la scuola sperimentale, dai grandi ministri democristiani (succedutisi senza eccezioni fino alla fine degli anni Settanta), agli ultimi grandi ministri laici (Berlinguer e De Mauro), a Fioroni−, in contraddizione con la ricerca scientifica pedagogica e psicologica (liquidata con sufficienza dalla Gelmini), in contraddizione con l’idea di una società nella quale tutti hanno pari opportunità perché a tutti sono offerti uguali strumenti culturali, la scuola della signora Moratti e poi definitivamente della signora Gelmini pensano a una società in cui i giovani non hanno bisogno di cultura (per il “grande fratello” e simili, per le solitudini e i silenzi degli i-pod e delle discoteche, per la rinuncia alla propria personalità e il trasferimento nei modelli del successo a perdere, basta e avanza la scuola che ha in mente l’estabishement dominante), così non pensano alla politica e prendono tutto quel che viene. Per le Università è lo stesso: pochi atenei d’eccellenza, e il resto, dei superlicei per i quadri. Tanto chi è dotato emerge sempre. Le ‘élite’ sono in antitesi con le masse. Del resto per il successo, anche quello meno effimero degli ‘amici di Maria’, quello degli imprenditori padani, non occorrono grandi studi: “laurà e dané, dané e laurà”. Senza distinzione fra padrone e operai, se non di conto corrente. Ecco il nuovo modello sociale della classe politica al potere. Alla sua guida uno così: nato nel ceto medio, media statura, media cultura, media (???) moralità, media (???) eleganza, medio gusto… Di grande, grandissimo, solo la ricchezza e il narcisismo. E tutti vogliono essere come lui. Almeno finché verranno su senza discernimento e capacità critica. Per questo la scuola deve essere “elementare”. Ha dichiarato che non ha mai pagato prostitute: forse perché c’è stato sempre qualcuno solerte che offriva –e i procedimenti in corso lo chiariranno−, forse perché non si paga solo con i soldi; in ogni caso almeno un paio mi pare che le paghi, e non da poco tempo: ma anche in quei casi si potrà sempre dire che li paga qualche congiunto o un’azienda vicina. A “Porta a porta” ha dichiarato: “Siamo circondati da troppi farabutti in politica, stampa e TV”. L’ho sempre pensato anch’io, e mi sono sempre domandato perché non se li leva di torno, a cominciare dal suo ospite dell’altra sera, dai direttori dei suoi giornali e dei telegiornali che controlla.
luigi totaro