Capitolo IV L’Elba, l’isola a forma di pesce L’Araldo fende l’acqua superbo: le sue vele quadrate gonfie di vento, il bompresso fiero e i fiocchi allargati come ali, sembrano farlo volare e l’immagine che offre di sé, a chi lo guarda da una prospettiva privilegiata, è magnifica. A bordo, invece, alla poesia subentra la prosa o meglio il prosaico; in particolare, un angolo è molto piratesco: barili pieni d’acqua dolce, attrezzi per la pesca, puzzo di pesce e di catrame, mucchi di panni poco puliti. Gli stessi marinai, che si levano i pantaloni fin dalle sei del mattino, esibendo improbabili mutande a righe o a quadretti, camminano scalzi e hanno piedi sudici, gambe pelose e torsi nudi. Trattano con rispettoso cameratismo Tigy, l’unica donna, in quanto moglie del signore, ma anche ragazza loro coetanea. Lei, da parte sua, non potrebbe essere più in gamba: aiuta come può, cerca di vincere il mal di mare succhiando spicchi di limone portati da Porquerolles, non si lamenta quasi mai di nulla. Tutto pur di star vicino a Georges e dimostrare di essere insostituibile. Porta fra i capelli ricci, un po’ schiariti dal sole, una fascia che le dona, fa risaltare i lineamenti delicati e l’ovale perfetto del suo viso. Ha con sé tanti libri ma per ora ha letto soltanto nei giorni di bonaccia; quando navigano, anche se col vento in poppa, come adesso, comunque c’è rollio, e lo sguardo sulla pagina scritta le genera subito la nausea. Ben presto, in lontananza, comincia a assumere le forme consuete la terra d’origine dell’equipaggio, l’Elba: dall’acqua emergono i colli conosciuti, seppure ancora sfocati dalla lontananza, le riviere ridenti, i borghi che sembrano presepi; e man mano che ci si avvicina, le due note dominanti di colore, il blu scuro del mare ancora sostenuto dal ponente teso e terso, e il verde della macchia mediterranea, che, in certi punti, s’inchina quasi a sfiorare il litorale. Il sole è alto, sicuro, spavaldo, la luce quasi accecante. Il capitano e i suoi uomini, pur cercando di soffocare contentezza e emozione per apparire veri lupi di mare agli occhi del loro signore, non stanno nella pelle: potranno vedere mogli e fidanzate, bazzicare casa, riposarsi dalle tensioni del viaggio, mostrare agli amici e ai paesani con che importante personaggio hanno a che fare. Hanno proposto e ottenuto di stare fermi almeno una decina di giorni, nella migliore delle ipotesi un mese, nel porticciolo del Cavo, ma prima faranno tappa a Portoferraio. La dolcezza delle colline, coltivate a terrazze di vigneti fino alla sommità, il profumo inconfondibile del lentisco, del cisto e del rosmarino, il giallo dei grappoli di ginestre in fiore sono altrettanti balsami per gli occhi e il cuore. Canticchiano e fischiettano, ostentando indifferenza. La rada del capoluogo isolano li accoglie nel suo abbraccio generoso e protettivo. Georges e Tigy sono colpiti dalla maestosità delle mura medicee culminanti nei due forti, Stella e Falcone, e dal contrasto tra la mitezza di case e di palazzi serenamente affacciati sull’acqua e la presenza ingombrante degli altiforni e dei cooper luccicanti di nero, col corollario del frenetico e incessante lavoro che esigono. L’Araldo sosta in porto accanto a piroscafi inglesi carichi di carbone, a qualche yacht, a molti gozzi e altri velieri; poco oltre, il palazzo dei Merli spicca sugli altri, mortificandoli, per l’austerità e l’armonia della sua architettura. Quasi subito, cominciano a avvicinarsi alla goletta, a distanza di cinque minuti l’una dall’altra, carrozze tirate da muli, con i cocchieri che chiedono con tono invitante: -Casa di Napoleone?- Ma la coppia, stanca dell’insistenza, rinuncia alla visita alle ville, scegliendo il riposo. Del resto non vi sono, secondo Simenon, che quattro ragioni plausibili per scendere a terra: la capitaneria, per sbrigare tutte le formalità di rito; la dogana, per soddisfare altre incombenze burocratiche; la posta, per ritirare lettere che reclamano altro denaro, e il bordello locale. L’ultima sosta è giustificata dalla probabilità di trovarvi un decoro familiare e ragazze che parlano la vostra lingua, dal desiderio di riprendere le proprie abitudini, di consumare alcolici di ogni luogo e …perché no? di essere generosi con altro denaro ancora. Ma se il torpore assale il navigante, se qualcuno dell’equipaggio sbriga le pratiche al posto tuo e passa anche dall’ufficio postale, del casino si può fare a meno, per una volta! Angelino ha un unico desiderio, ora che è a Portoferraio, andare dal mitico polpaio isolano e invita i Simenon a accompagnarlo. -E’ la cosa più buona del mondo! c’è tutto il sapore del mare in una grampia di polpo!! Grampia è gamba, zampa, tentacolo: compris? come si dice in francese?- -Tentacule…- traduce Tigy -Oh, no! J’eprouve du degout pour cela! Disgusto, capito!?- sbotta Georges -Va bene, pazienza! Non sapete cosa vi perdete!- s’arrende Angelino deluso Quando ritorna, una mezz’ora più tardi, spiega che vicino al mercato, dove si allineano i banchi di marmo, c’è quasi sempre un venditore di polpi, con il viso a punta segnato da cicatrici e la fronte alta, che è al centro dell’attenzione di vari capannelli di persone. In una pentola di terracotta ha cotto i polpi per venderli a pezzi. I buongustai si riuniscono intorno alla pentola e chiedono, chi una grampia, chi la borsa, cioè la testa; e lui serve quanto richiesto ancora fumante su una forchetta di stagno…il polpo è gustoso, salato al punto giusto e piccante, perché si usa la ceragina… - Ceragina!?- fa Tigy, che ha capito quasi tutto - Pe-pe-ron-ci-no!- scandisce Angelino -Ah, piment! J’ai compris!- risponde contenta. Poi, distesa sull’amaca, mentre Georges scrive con la pipa tra i denti e il berretto da marinaro calato sulla fronte, si gode la quiete della sera, quando la brezza di mare sembra offrire più forti i suoi profumi e la gente è meno affannata e ansiosa. Nota che i caffè si riempiono e che sottili, pallide ragazze assai belle e con le labbra molto segnate dal rossetto, passeggiano strette ai loro innamorati. Persino l’irrequietezza degli altiforni e i loro gas paiono più sopportabili. La mattina dopo si salpa e qualche ora più tardi l’Araldo è ormeggiato nel minuscolo porto del Cavo: anche qui colline coltivate e vigne che quasi lambiscono la spiaggia, già cariche d’uva, ma quasi incolte, tuttavia, come se il contadino non contasse tanto sul lavoro umano e la precisa disposizione dei filari per farle fruttificare, quanto sul sole e la sua forza. Non c’è ordine nemmeno nelle altre colture: i cavoli spuntano in mezzo alle erbe selvatiche, così come le case fioriscono qua e là, senza rispondere a un piano regolatore e gli asini, gravati dal basto, errano in compagnia delle capre. Questa impressione di casualità e di modestia è accentuata dal contrasto con due splendide ville che spiccano sull’abitato: una, su una roccia che si allunga nel mare, grande, austera, circondata da un boschetto di pini e di lecci; l’altra, pretenziosa, costruita come un castelletto, con tanto di merlatura sulla sommità, che ha la facciata sul lungomare e il corpo centrale a monte, oltre un viale alberato di piante mediterranee. L’aria ha la dolcezza e il profumo dei fichi maturi, che ciascuno può cogliere, senza chiedere il permesso al proprietario. I marinai dell’Araldo, dopo aver fatto a turno visita a casa e invitato gli amici a non disturbare il signore con soste inopportuno sul molo, davanti alla goletta, pitturano e ripitturano, senza stancarsi, l’imbarcazione. Così, mentre Tigy e il cambusiere vanno a cercare in paese pesce fresco per il cacciucco, Georges, cacciato, perché ingombra, finisce, passeggiando su una roccia, vicino a una casa in costruzione. Non si può invero definire casa perché c’è una sola stanza con i muri e il tetto terminati, ma non ha porte né finestre né pavimento. -Non si finisce?!- chiede lo scrittore all’uomo, presumibilmente il proprietario, che vi si aggira intorno, tra sacchi di cemento, cataste di tavole e mucchi di sabbia. Lui non risponde nemmeno, gli sorride e basta: in quel sorriso Simenon legge rassegnazione e fatalismo. Insomma, è come gli dicesse: -Chissà, forse, un giorno, se Dio vorrà, se riuscirò a risparmiare i soldi per pagare i muratori…- Quel sorriso l’ha già visto altre volte, sulle sponde del Mediterraneo, anche tra i lavoratori della Costa Azzurra, ma più contratto, perché loro non possono passeggiare con le spartiglie, stendersi al sole sui massi del molo, a mezzogiorno, e nutrirsi con un piatto di pasta. La crisi economica morde, come non mai, in Europa, a quattro anni dal crollo di Wall Street e nell’Europa del sud talvolta azzanna. Tutto è in vendita, anche in un posto privilegiato come Cannes. Yachts maestosi come piroscafi, che valgono milioni, e più piccoli, veri piccoli gioielli, che comunque valgono duecento o trecentomila franchi, sono ceduti a prezzi stracciati.. Sono in vendita le ville, le auto, i gioielli, le perle, l’intera Costa Azzurra. E all’Elba!? Qui nemmeno il bottegaio del paese riesce a costruirsi una casa, figuriamoci gli altri… Quando ritorna sulla goletta, lo avvolge il profumo del soffritto: la cipolla e l’aglio appassiscono lentamente nell’olio e tra poco, dopo essere stati bagnati da un po’ vino, subito evaporato, ospiteranno il pomodoro maturo a pezzi, insieme ai tocchetti di seppia, totano e polpo, ai granchiolini, alle sparnocchie, ai pesci dalle carni più sode e bisognose di cottura, lo scorfano, il capponcello, la razza, e poi via via gli altri, la tracina, il palombo, il gattuccio, fino all’amalgama perfetto di aromi e sapori esaltati dal tocco finale del prezzemolo a crudo, triturato fino; il tutto da versare su fettine di pane raffermo, odorose d’aglio e di peperoncino. Tigy è al lavoro, insieme a tutto l’equipaggio: il cacciucco esige perizia, pazienza e collaborazione. Stasera hanno un ospite particolare, che è un frequentatore del Cavo da alcuni anni, Filippo Tommaso Marinetti, amico della famiglia Hammeler-Mazza che nel paesino elbano possiede una bellissima casa, sul promontorio di Capo Castello, da cui si gode una vista straordinaria sul Canale di Piombino e dove nel I° secolo sorgeva una splendida villa marittima romana Il fondatore del Futurismo incuriosisce e stuzzica la fantasia dei Simenon; sanno che conosce bene il francese e dunque la conversazione sarà più facile. -Potevate andare da Pierolli, che fa un cacciucco che ci cantano gli angeli!- fa il cuoco, sinceramente preoccupato dell’esito della sua cena e paventando un possibile insuccesso. -Ma no, lui voleva venire proprio qui! Per lui è pittoresco e poetico un posto come questo!- risponde Tigy -Sti’ signori so’ curiosi… hanno i soldi per mangiare al ristorante e preferiscono la barca! –sbotta il giovane col mestolo in mano e un diavolo per ogni capello che possiede. Ma le sue preoccupazioni risultano esagerate: con la moglie Benny, Marinetti trascorre una serata deliziosa a bordo dell’Araldo e di quel cacciucco, mangiato en plain air, sotto le stelle e la luce di una luna già quasi piena, si ricorderà per molto tempo. Mentre è a bordo della goletta ormeggiata in quel minuscolo porto dove c’è posto giusto per lei e poche altre barche da pesca, Simenon, bravissimo a concentrarsi anche in situazioni estreme, comincia la stesura di 45° gradi all’ombra. Del resto qualche anno prima, in Olanda, non aveva scritto un romanzo intero rinchiuso nella stiva di un vecchio battello arenato in fondo al porto? Gli operai si erano impadroniti del cutter Ostrogoth per calafatarlo di nuovo e non lo volevano tra i piedi; allora lui aveva sbaraccato: pipa in bocca, stock di fogli e macchina da scrivere come bagaglio, si era trasferito in quel relitto abitato dall’acqua e dai topi. Lì, in santa pace, era riuscito a portare a fine il suo lavoro. In una delle tante passeggiate nel villaggio, respirando a pieni polmoni l’aria profumata di rose e di pini, capita davanti a una delle più belle costruzioni che gli sia mai capitato di vedere. E’ villa Tonietti , che sorge su uno sperone di roccia assediato dal mare, dall’aspetto massiccio, quasi di fortezza, ingentilita però da belle terrazze panoramiche con balaustra a colonnini, da un elegante porticato e da statue e panchine in pietra disseminate lungo tutto il perimetro. Un fitto parco d’alberi e cespugli, pini, lecci, lentischi, corbezzoli , cisto e rosmarino ombreggiano il retro della costruzione. Avvicinandosi, lo scrittore avverte però sempre più forte il senso della trascuratezza: le inferriate in ferro battuto sono arrugginite, le tettoie marciscono, i muri visti da vicino appaiono scrostati in larghi tratti, i viali sono invasi da piante selvatiche. Al guardiano che si aggira sconsolato tra quella bellezza in piena decadenza chiede: -Ma i proprietari sono morti!?- -No, vengono ogni estate…- Quindi, anche loro aspettano, forse non hanno abbastanza soldi per il restauro, come il bottegaio del paese, come tutti qui. Anche sul Bosforo, in uno scenario simile a questo, lo scrittore ha visto grandi dimore costruite in legno, le yalis che esprimevano, malgrado l’abbandono, tutto il fasto e la sensualità dell’antica Turchia, con l’haremlik, la parte femminile, separata da quella maschile, il selemlik, da un loggiato minuziosamente lavorato. Un suo amico, proprietario di queste abitazioni e nipote di un gran vizir, che le ha costruite, gliele ha fatte vedere: rigurgitano di tappeti meravigliosi, di soprammobili che sarebbero degni di stare nei musei, di lampadari di cristallo con tremila vere candele. Solo che i giovani proprietari sono al verde, vivono in un appartamento ammobiliato a Pera e sperano non già di vendere, ma almeno di svendere, per diecimila franchi o giù di lì, quel ben di Dio. L’hanno offerta anche a lui una yalis! Chissà, domani questo destino poco brillante potrebbe toccare a una moschea! Gliene hanno mostrata una, dal minareto leggero come trina: -Ne volete una!? E’ vostra per ventimila franchi…- a riprova che la crisi economica attanaglia proprio tutti e non risparmia certo gli abitanti del Mediterraneo. C’è qualcosa non in vendita!? Da questa baia isolana Simenon vede passare golette a tre alberi che sono una meraviglia -l’Italia, più di altri paesi rivieraschi, è rimasta fedele alla navigazione a vela- che solo di vele nuove sono costate cinquantamila franchi, e di battello -alcuni hanno meno di dieci anni e sono di spesso legno di quercia- almeno duecentomila. Ebbene, si possono comprare per trenta, quarantamila franchi; se c’è un motore, centomila. In Germania, dove ha vissuto nel momento più acuto dell’inflazione, ma anche negli altri paesi del Nord, le persone mostrano facce contratte e preoccupate, reagiscono o con la disperazione o con la depressione o col darsi ai più torbidi piaceri, per stordirsi e non pensare. Qui invece, nel Mare nostrum, non si parla di crisi, non c’è ribellione, non ci si scaglia contro la cattiva sorte: non si spera né si dispera. Forse è perché si soffre meno? Si è portati a crederlo per la benignità della natura, che matura le mèssi con la forza del sole, gonfia e addolcisce i grappoli sulla vite, dissemina ovunque i suoi colori e profumi. Ma forse la spiegazione si può trovare nella Bibbia: non è da tempo immemorabile che alle sette vacche grasse si alternano quelle magre e che questo specchio di mare blu profondo conosce popoli erranti all’affannosa ricerca non tanto di conquiste quanto di nutrimento? L’asino, per San Giuseppe era tutta la sua fortuna, e ancora oggi in Egitto questa bestia fatica tutto il giorno a girare una ruota che fa salire dal pozzo l’acqua che disseta i campi coltivati; non solo, l’animale serve per trasportare il contadino, sua moglie e i suoi figli; e se è un’asina, il suo latte nutre tutti. Qui, in questa piccola isola italiana, gli asini hanno lo stesso valore e rappresentano il patrimonio personale dei loro proprietari, che silenziosi, quasi alteri nei loro larghi cappelli, passano per i sentieri. Lassù, tra le brume del Nord, gli animali che accompagnano gli agricoltori sono cavalli possenti e vacche opulente, che conoscono bene l’avena e l’erba fresca: qui, nel Mediterraneo, asini, montoni e capre cercano tutto il giorno cardi e erbe secche e bevono quando piove, senza lamentarsi, con la saggezza dei vecchi filosofi. Nemmeno chi ha offerto allo scrittore per ventimila franchi un veliero, che gliene è costato duecentomila, cerca d’impietosire: è dignitoso e regale a suo modo, come l’asino-filosofo. E come il pescatore che per tutta la scorsa notte ha lavorato a mettere nasse e reti sul fondale. Il mare era arrabbiato e non trovava pace lo scirocco che incalzava come se soffiassero tutti i diavoli dell’inferno. Lo scrittore lo ha visto sulla sua barchetta a fondo piatto che pareva arrendersi da un momento all’altro alle onde. E ha avuto paura per lui. L’indomani mattina, il vento è calato ma il cielo è coperto da nuvoloni bassi e grigi come il piombo, i gabbiani non si alzano e il mare ha ancora il broncio. Simenon passeggia per l’unica strada del villaggio, gustandosi l’aroma del suo tabacco. A un tratto vede il pescatore della sera prima: ha una cesta in mano e va di porta in porta. -Buona pesca!?- gli fa. Lui non risponde ma gli mostra la cesta che contiene una specie di serpente a macchie gialle e nere, diviso in dieci pezzi, una murena di un chilo circa. -Che ne fate?- chiede lo scrittore, togliendosi la pipa di bocca, già incredulo per quel che immagina di sentirsi rispondere - La vendo pezzo per pezzo…qui la gente è povera, è già tanto se una famiglia ne compra un morso a testa. Poi la cucina col pomodoro dell’orto, la nipitella e ci condisce la zuppa…il sapore…ecco, s’accontenta di questo. Arrivederci, signore, buona giornata!- Simenon stupito e intenerito lo guarda, col groppo in gola, sorridendo senza riuscire a rispondere al saluto. Poi, ritornando alla sua goletta, riflette che anche il Vangelo parla di poveri pescatori… Ecco, nel Mediterraneo sono ancora all’epoca della Bibbia, del Vangelo. Italiani, Greci, Turchi e Siriani sono alla ricerca della Terra promessa, a cui aspirano affannosamente girando in lungo e in largo quel bacino. Non si sentono mai fuori luogo, perché ovunque, lungo le sue coste, è la stessa musica. Un mix di sfarzo e di povertà, di benevolenza e di durezza: il mare può essere seta e cullare le barche-gusci di noce, due ore più tardi la burrasca può infuriare e ingoiarsi il pescatore. Il grano matura che è un incanto, grazie alla forza del sole, ma quello stesso calore secca le erbe in pochi giorni. Salito a bordo, lo scrittore racconta l’episodio a Tigy, che commenta-Oh, pover’uomo!- e si allontana per non far vedere la sua commozione. -Ma, Giacomo –chiede Simenon al capitano- che risorse ci sono sull’isola? Lui lo guarda sorpreso: - Ma come, non lo sapete!? E’ uno dei centri minerari più importanti d’Italia!- Simenon quasi scoppia a ridere: per lui, la parola miniere evoca ambienti selvatici, facce tirate, sfilze di case operaie tristi come cimiteri, rotaie, semafori, cumuli di materiali di scarto, ciminiere che fanno nero il cielo. -Dove si trovano le vostre miniere?- -Laggiù…- indica Giacomo- a mezzo chilometro da qui- Allo scrittore appare solo una cava sulla collina, qualche vagoncino che va e viene, un molo di palafitte dove un rimorchiatore viene a prendere le chiatte cariche di minerale per portarle in continente. -Ma, non avete le fabbriche!- - Che dite, abbiamo gli altiforni di Portoferraio!- -Ah, sì, li abbiamo visti, ma sono in un posto idilliaco…- -E le case operaie?- -Sono quelle che vedete, sparse qua e là per la campagna, per il paese… -E’ vero, si assomigliano tutte, ma hanno un giardino, un orto, i polli e l’asino… -Sì, perché quando si ritorna di miniera, si comincia il lavoro del contadino…o quello del pescatore, per arrotondare la mesata…Sennò si fa la fame…Compris!?- Lo scrittore comincia a capire l’abisso che separa la società mediterranea da quella atlantica. Lui conosce bene la fatica e il rischio che tutti i giorni vivono i lavoratori dei mari del Nord: ha vissuto con i pescatori di sciabica di Boulogne, d’Ijimuiden, d’Edmen o con quelli di merluzzo e d’aringhe dei grandi fondali atlantici.. Si lavora in trenta o quaranta al servizio di un armatore che decide quando si parte, il contenuto della busta paga e la percentuale sul pescato dei suoi dipendenti. Ma quei pescatori sono sindacalizzati, sono proletari che, al ritorno, fanno la coda allo sportello di un edificio squallido per avere il loro denaro. Sono legati alla Borsa e alle sue oscillazioni. Là si catturano, su grossi pescherecci in grado di affrontare la furia dell’Oceano, tonnellate e tonnellate di pesce, che a volte viene in parte buttato via per sottostare a regole di mercato che quegli stessi uomini, che hanno sgobbato settimane sulle reti, ignorano. Ma c’è coscienza di classe, si è pronti a lottare per rivendicare i propri diritti, per far rispettare quanto stabilito dai contratti. Qui non c’è niente di tutto questo. Le barche sono minuscole e si può essere in due o tre a dividerne la proprietà. Gli uomini passano ore e ore seduti sulla rena della spiaggia o sui massi del molo per attaccare i capi delle sardine agli ami dei palàmiti o a preparare le nasse per pescare gronchi o aragoste. Oppure pescano la sera con le lampare, accecando il pesce per dirigerlo nelle trappole preparate. Non ci sono le oscillazioni di Borsa, non si fa la fila agli sportelli per essere pagati. Per questo, nemmeno si parla di crisi: forse la crisi è un’invenzione troppo moderna come lo sciopero e la serrata. Parole che non hanno senso qui, sostituite da una saggezza atavica, biblica, l’avvicendarsi delle annate grasse e magre, della miseria e dell’abbondanza, senza che ci si esalti nei momenti buoni o ci si deprima troppo in quelli cattivi, fuori dal tempo e dalla storia, accontentandosi di mangiare un piatto di pasta per bighellonare tutto il giorno… Nel Nord se un uomo compra un pezzo di terra e la sa far fruttare, l’anno seguente compra un trattore e poi ancora un furgoncino, insomma investe, tende a migliorare il suo tenore di vita: qui, il buon pescatore di murene, se anche farà una gran pesca, in un raro giorno fortunato, probabilmente non comprerà un furgoncino o un asino per vendere meglio il suo pesce per il paese; farà invece come il cammello, berrà e mangerà consumando piano piano tutte le risorse della sua gobba, per vivere di ricordi felici nei giorni difficili. Non per nulla, anche il cammello è Mediterraneo! Questi pensieri ronzano come api laboriose nella testa dello scrittore che, a un certo punto, avverte la necessità di condividerle col suo capitano. Giacomo ascolta attento e assorto, poi: -Signore, forse voi dite così perché non conoscete bene la nostra storia…Per tanto tempo anche per noi elbani, quelle parole, lotta, sciopero, serrata, proletariato, contratto … hanno avuto senso. Ma voi lo sapete che a Rio Marina, Rio Elba, Capoliveri, paesi minerari, e a Portoferraio, paese industriale, ma anche nel Campese, dove si lavorava il granito, gli operai erano organizzati, avevano sindacati e c’erano i rossi, cioè i socialisti e anche gli anarchici!? E lo sapete che si facevano scioperi durissimi, come quello dell’undici, durato mesi, che a casa mia se ne parla ancora, sottovoce, e che c’erano scontri tra le forze dell’ordine e i lavoratori e che in questi scontri ogni tanto ci scappava il morto!? A Rio Marina morì una bimba innocente… Io non conosco bene le situazioni degli altri paesi del Mediterraneo, la politica, l’economia, ma dell’Italia lo so bene come stanno le cose…Non ci sono più sindacati, non c’è più diritto di sciopero…Ma lo sapete chi c’è al governo!? Lo sapete cosa è oggi l’Italia?! Non mi fate parlare, che non posso…- Il capitano tace, rosso per l’agitazione e la lunghezza del discorso, perché lui è di poche parole, come i veri lupi di mare. Simenon lo guarda, vergognandosi un po’ delle sue valutazioni superficiali, avvertendo di aver offeso, in qualche modo, la sensibilità di quel giovane e della sua gente. Si ripromette di essere più cauto per il futuro. Il giorno dopo, lo scrittore, di ritorno da una passeggiata, e malgrado il cartello con tanto di scrittaE’ vietato salire a bordo, trova il battello pieno di gente: un ragazzo sbuccia le patate, un altro a piedi nudi e pantaloni arrotolati lava il ponte a gora, un altro ancora ripara con pazienza le sue reti da pesca. -Chi sono?!- chiede, irritato -Cusini- risponde Angelino, come fosse la cosa più naturale del mondo -Tutti e tre!?- -Sì!- Lo scrittore vede che non c’è posto per lui e ritorna a gironzolare per il villaggio, a guardare la gente e a odorare il profumo di maggio lungo i sentieri fioriti. Al ritorno sull’Araldo, gli ospiti sono saliti a dieci: chi lava lo scafo, chi pittura, chi è occupato a pescare la frittura per la cena. -Suppongo che questi non siano cusini!- esclama irritato -Ma sì, cusini del capitano e del mozzo- Quando arriva l’ora del pasto, trova tutti questi cusini a tavola con l’equipaggio; considerando che lui dà una certa somma complessiva ai suoi marinai per il loro sostentamento, di conseguenza è sul conto dell’equipaggio e non sul suo che mangiano questi volontari! L’indomani all’alba, due o tre marinai sono assenti per la visita alle famiglie, ma sull’Araldo ci sono più lavoratori del previsto: uno sconosciuto fa il letto, con calma, senza chiedere nulla, un altro lava le spartiglie col sapone di Marsiglia. -Cusini!? -Sì, signore, cusini!!- E’ così per tutti i giorni che stanno al Cavo: il battello è ridipinto da perfetti sconosciuti e sempre con perfetti sconosciuti, ma cusini, che anticipano ogni minimo desiderio della coppia, si va a pesca. Una sera, una splendida sera di quel maggio, quando il sole, smarrita ormai ogni energia, si prepara a un tramonto dalla bellezza struggente e il mare, persa ogni increspatura, si arrende alla quiete, mostrando un fondale senza segreti, Georges e Tigy riposano godendosi l’incanto del momento. Lui legge sull’amaca, ma senza troppo impegno, alzando spesso lo sguardo al dolce profilo delle colline intorno e della costa toscana all’orizzonte; lei è intenta a ripulire le conchiglie, i sassi e i vetrini colorati levigati dall’acqua, che ha raccolto sulla spiaggia. Li passa nell’acqua dolce, li asciuga, poi li chiude in un barattolo, mettendoci sopra un’etichetta col nome del luogo e la data. E’ la sua maniera di distinguere le varie tappe della crociera e non confonderle. A un tratto, vedono avvicinarsi dal largo una barca da cui si espande una musica dolce e sommessa. Quando è vicina al veliero, si materializzano cinque, sei, otto uomini armati di mandolini e di chitarre, che si lasciano trasportare dalla corrente. - Angelino!- chiamano. In pochi minuti sono tutti a bordo e, dopo calorosi saluti al nostromo e al resto dell’equipaggio, si mettono a cantare una romanza napoletana di cui un improvvisato tenore, in costume da bagno, intona le strofe. - Che succede!?- chiede non senza apprensione Simenon - Cusini! Cusini miei e del capitano! A quelle note, come i calamari attratti dalla luce, altri giovani salgono sull’Araldo e cercano una sistemazione sul sartiame e sui guardacorpi. Sono allegri, sorridenti, ritengono sottinteso l’invito. La via si riempie di curiosi e i musicanti, lusingati da tanta attenzione, intonano sempre nuovi pezzi. Il giallo e il rosso del tramonto fanno da fondale alla performance del primo attore, il chitarrista dalle lunghe basette scure, il cappello calcato sulla fronte e la sigaretta tra le labbra, chino sullo strumento come un innamorato sulla sua bella. Simenon ascolta, divertito ne incuriosito. Ma, passata un’ora, mentre le ombre calano più decise, prevale l’inquietudine e allora prende da parte il nostromo: - Allora, mi spieghi chi pagherà tutti questi uomini!? Non solo i musicanti ma tutti quelli che, da quando siamo qui, lavorano sulla barca? In questi giorni è salita a bordo una vera armata! - Sono cusini!- risponde Angelino con un’espressione di autentico stupore nello sguardo più celestiale che mai. - Cusini! Va bene, ma insomma devono anche mangiare, suonano e cantano per guadagnarsi da vivere, immagino…Non lo faranno solo per amore dell’arte!- - Cusini!- insiste il nostromo - Ma questi chitarristi da dove vengono?- - Da Rio Marina, il paese che si trova dietro questo promontorio- - E dove vanno!?- - Non importa dove…sono disoccupati, di mestiere molti di loro fanno i marinai, ma ora sono senza ingaggio, gli altri sono meccanici…- - Si guadagnano la vita con la musica?- - Ma no…forse mangeranno con noi, magari dormiranno qui, sul fondo della barca, con la vela che farà da coperta, se lo chiederanno. Tutto qui! Domani è un altro giorno e cercheranno altrove…- - E gli altri cusini, quelli che hanno lavorato a bordo? – insiste Simenon - Daremo da mangiare anche a loro!- Ecco, pensa lo scrittore, hanno cugini dappertutto: si dà una mano al proprio cugino risparmiandogli una fatica e lui in cambio cede la metà dei suoi maccheroni… Quando, dopo due ore di serenate, lo scrittore offre del denaro ai musicanti, questi protestano con vigore e si sentono umiliati da quell’insistenza. Non chiedono che da bere e da mangiare; le loro scarpe hanno le suole bucate ma i pantaloni sono pulitissimi e sulla fronte calcano berretti da ammiraglio. C’è nel loro atteggiamento, nella cura stessa del loro modesto vestire un'innata dignità e eleganza. Lasciando la goletta dopo saluti che non hanno nulla d’ossequioso, riprendono il mare sulla loro barca, vanno a suonare altrove. Il chiaro di luna è il loro unico viatico. Si allontanano pizzicando ancora le chitarre. Adesso, per Simenon, la parola cusino non è più un fastidioso ritornello, la pronuncia con rispetto: l’avevano avvertito che qui la gente era molto povera; e lui ha visto con i suoi occhi giovani ciondolare sul porto, pescare con la lenza o giocare a palla. Disoccupati, perché il lavoro manca, ma con i pantaloni di un bianco irreprensibile. Dunque la parola cusino, come babbo o mamma, ha davvero senso in questo luogo! In famiglie di sei, otto persone lavora una soltanto, per tutti, per poter assicurare almeno un piatto di pasta. Eppure la loro non è miseria, è povertà sopportata a testa alta e addolcita dalla solidarietà tra parenti e amici. Rifiutano qualsiasi offerta. Lo scrittore è commosso e turbato da quell’atteggiamento: capisce di aver sbagliato a insistere e se ne vergogna. Così nei giorni seguenti lascia che altri sconosciuti lavorino sull’Araldo, senza provare risentimento nei loro confronti, anzi con una sorta di particolare ammirazione: sono piccoli eroi del quotidiano che dividono il cibo con i loro pari senza nulla chiedere al signore. In uno degli ultimi giorni di permanenza all’Isola d’Elba, fa la conoscenza di una vecchia signora dalle vesti e dai capelli grigi, che ha un’aria insieme dolce e vivace. Questa donna parla molto bene il francese e l’inglese, Simenon ne è stupito. Sta sempre sulla soglia della sua bottega, attorniata da tanti bambini - Sono vostri nipoti? Siete la loro nonna?- - No, sono la loro zia…Io sono vedova e senza figli…- - Come fate a parlare così bene il francese?- - Passo l’inverno a Nizza- - E l’inglese?- - Ogni due anni risiedo per qualche mese a New York e a Boston…- Ma allora, che l’umile bottega sia in realtà una gallina dalle uova d’oro!? -Vi spiego -fa la donna vedendolo interdetto- ho nipoti parrucchieri a Nizza e un’altra nipote sposata con un ristoratore a New York…A Boston invece…- Insomma, pensa lo scrittore, la solita storia dei cugini, dei parenti solidali, della famiglia allargata che non solo garantisce la sopravvivenza ma anche affetto, calore, ospitalità e trasforma una vecchia vedova di paese in una turista cosmopolita. Ecco, dunque è questo che spiega la pace degli abitanti di questo paesino, le loro facce pulite e sorridenti. Vivono grazie alla tribù, come ai tempi d’Abramo, come nella Bibbia. E’ la stessa serenità che si nota sui grandi transatlantici tra gli emigranti di terza o quarta classe, che sono oggetto di vivo stupore ma anche malcelato ribrezzo, per le condizioni in cui fanno la traversata, da parte delle belle e ricche signore della prima classe: qualche giovane mamma, stretta nello scialle, allatta il suo bambino; qualche uomo sta sul castello di prua o vicino a un argano. Ma non sono mai soli: insieme mangiano ceci o i resti del pasto dei signori che una cameriera sollecita porta loro; la sera si riuniscono attorno a un suonatore di chitarra; la notte, sotto un’unica coperta si stringono per scaldarsi. La forza di questi emigranti, come quella dei giovani elbani, sta nell’aiuto reciproco: resistono perché dappertutto hanno qualcuno che li soccorre, materialmente e spiritualmente. E’ così anche per un’altra categoria di errabondi: i pescatori del Mediterraneo, che vagano dall’una all’altra delle sue rive alla ricerca di acque più ricche o di mercati più generosi per il loro pescato. Dormono sul fondo dello scafo, tra le gambe hanno palàmiti e tramagli, ma le loro barche sono spesso gioielli d’artigianato: ogni centimetro di legno è scolpito e dipinto come le fregate di una volta. Dove vanno!? Dappertutto, restando sempre in casa, perché il Mediterraneo è la loro casa.