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Portoferaio, Gaboliveri, e Goggolo 'n su

Scritto da : Elena Maestrini
Pubblicato in data : giovedì, 14 agosto 2003

Tempo fa un comune amico, nel lavorare al numero zero di un nascituro giornale elbano, si divertì a costruire una prima pagina che suonava pressappoco così: LA PUNTA DEL CAVO PENETRERÀ IL GOLFO DI FOLLONICA. L’ingegneria geosessuale renderà inutili costosi ponti e tunnel sottomarini. Il team che condurrà l’esperimento assicura che l’impatto sarà dolce. La gustosa boutade mi è tornata in mente leggendo su Elbareport il preoccupante infittirsi dei sintomi di continentalizzazione dell’Elba, in particolare per ciò che riguarda fatti di cronaca più o meno nera: a parte i soliti incendi (tutti frutto di autocombustione, ci mancherebbe), eventi come rapine a mano armata, sequestri di stupefacenti, mogli e fidanzate pestate di santa ragione, atti di pirateria stradale, una volta tipici esclusivamente dell’Italia continentale e delle grandi isole, adesso paiono aver imboccato una sorta di ponte virtuale (ma che traghetta più che altro vizi) tra Piombino e le coste elbane ed essere divenuti parte delle consuetudini locali. Non c’è nulla da fare: la globalizzazione è inarrestabile e raggiunge pure le periferie estreme. Devo comunque dire, dopo molti mesi di residenza padana, che all’Elba ancora mancano, fortunatamente, diverse cose perché assuma caratteristiche eccessivamente continentali e, dio non voglia, norditaliote. Per esempio la toponomastica… va bene, suppongo che ci penseranno gli amici di Elbareport a spiegare ai vari Assessori e Consiglieri che “toponomastica” non vuol dire “avvenente fanciulla intenta ad atti ruminatori” bensì “studio scientifico dei nomi di luogo”, cioè dei nomi dei paesi, delle località ecc. Andiamo avanti. Ogni mattina, prima di immettermi nel serpentone dell’A8 che dal Varesotto mi conduce al posto di lavoro in Milano, percorro diversi chilometri e attraverso numerosi piccoli paesi; alcuni, poveretti, hanno già da soli dei nomi che sono tutto un programma: tipo Gazzada o Azzate, quest’ultima caratterizzata dall’avere sei rotonde in un tratto di strada equivalente al percorso Molo Mediceo – Ponticello, ma questa è un’altra storia; in altri casi sono gli amministratori che ci mettono del loro. Da qualche tempo, alimentata dalle simpatiche e folkloristiche rivendicazioni leghiste, qua in Padania è invalsa la mania del dialetto: riviste e quotidiani in dialetto (cose seriosissime, mica il nostro “Vernacoliere”), nomi delle vie in dialetto, indicazioni luminose all’ingresso delle città in dialetto, cosa quest’ultima che per poco, una volta, non mi fa devastare un asilo nido lì vicino, distraendomi dalla guida per cercare di decifrare l’oscuro messaggio. Infine i nomi dei paesi in dialetto. C’è un posto che si chiama “Buguggiate” dove il solito leghista ha pensato bene di aggiungere ai cartelli d’ingresso al paese una fascetta adesiva verde con la scritta “Padania”, come se all’Elba qualcuno pensasse di aggiungere la scritta “Elba” sui vari cartelli “Capoliveri”, “Portoferraio”. “Ma guarda – potrebbe pensare il turista estivo che li leggesse – meno male che c’è chi precisa: pensavo di stare in Valtellina!”. Nessuno si è sognato di togliere le fascette, ma tant’è, in fin dei conti siamo ancora nel folklore; ma il surreale si è verificato quando il primo cittadino di Buguggiate ha pensato bene di aggiungere al bianco cartello già padanizzato un altro cartello marrone con la traduzione del toponimo in dialetto: “Bügügià”. Ora, a me viene spontaneo immaginare cosa succederebbe all’Elba se le amministrazioni, poniamo, di Portoferraio, Capoliveri e Rio Elba decidessero di aggiungere ai cartelli esistenti quelli con le scritte dialettali, rispettivamente: “Portoferàio”, “Gabolìveri” “Goggolo ‘n sù”... minimo un devastante tsunami di ghignate. Ma c’è di peggio, giacché la pronuncia suggerita è pure sbagliata. Sì, perché, come mi ha spiegato mio suocero, profondo conoscitore degli usi e costumi locali, la pronuncia dialettale corretta sarebbe “Bugusgé”, mentre quella che vorrebbe suggerire il cartello con le “U” guarnite di dieresi sarebbe alla francese, ottenibile atteggiando la bocca a pronunciare una “U” emettendo invece un suono “I”: gli insegnanti di francese delle medie ci hanno scardinato guance e mandibole con questa cosa. Purtroppo il sindaco del ridente paese varesotto non ha considerato che mettere due “U” alla francese, che pure fanno un sacco figo, in una parola di tre sillabe, provoca una sequenza di suoni che ricorda, in modo allarmante, quelli prodotti dai passeggeri di certi traghetti quando attraversano il canale di Piombino con mare forza sette: suoni che si emettono quando, per varie ragioni, l’ultimo pasto consumato decide improvvisamente di abbandonare il nostro organismo per la strada sbagliata e che il nostro, di dialetti, definisce “onchi”. Fate l’esperimento: provate a pronunciare il toponimo atteggiando le labbra a sfintere gallinaceo e ditemi se non ho ragione. A proposito di sfinteri, invece, c’è un’altra chicca padana che riguarda il verde simbolo della Lega, conosciuto come “Sole delle Alpi”; che c’entra con gli sfinteri? Ci arriviamo. Un altro primo cittadino seguace di Bossi, ma stavolta nientemeno che quello del capoluogo di provincia, Varese, ha avuto la bella pensata di abbellire (?) la grande aiuola circolare al centro di Piazza Monte Grappa, la principale della città, con gaie e colorate composizioni floreali disposte a formare, guarda caso, proprio il simbolo del suo partito. Anche qui mi viene da pensare cosa accadrebbe all’Elba, se qualche amministrazione decidesse di disporre i fiori nelle aree verdi cittadine a disegnare vuoi una falce e martello, vuoi un bandierone di Forza Italia; neanche il nostro Presidente del Consiglio, che pure in cuor suo tratterebbe volentieri al napalm sia querce sia margherite, è mai arrivato a siffatto abuso politico della botanica. Ma qui entra in gioco un’affascinante teoria, sempre proveniente da mio sagace suocero. Avrete fatto caso che il suddetto simbolo del “Sole delle Alpi” come sole appare un po’ strano: un minuscolo cerchietto centrale contornato da lunghi raggi che, invece di essere tradizionalmente diritti, si piegano a formare delle curve opposte l’una all’altra; per di più il tutto è verde... ma chi l’ ha mai visto un sole verde? Tutt’al più Superman nella sua infanzia kryptoniana. In realtà la giusta spiegazione potrebbe essere la seguente: il suddetto simbolo è stato adottato dalla Lega per la frequenza con la quale si trova graffito sulle rocce di antiche caverne alpine e prealpine; si è arbitrariamente desunto che fosse un omaggio al sole, mentre bisogna tenere presente che le antiche popolazioni locali, gli Insubri, vivevano sì di caccia, ma che la suddetta, vuoi per le tecniche primitive, vuoi per stazza e furbizia degli animali, non sempre dava buoni frutti. Giocoforza, la dieta degli autoctoni si riduceva spesso ad essere costituita da frutti spontanei della terra: erbe, bacche, tuberi e radici, tutti alimenti difficili da mandar giù, digerire e, soprattutto, da espellere. Di conseguenza non c’è da stupirsi se gli antichi abitatori di queste terre tenessero la bistratta parte terminale del loro apparato digerente in tale conto da dedicarle addirittura dei graffiti propiziatori, di colore verde sempre in relazione alle conseguenze della dieta erbivora di cui sopra. Altro che “Sole delle Alpi”: la Lega si è presa come simbolo quello che in realtà potrebbe tranquillamente essere il “Buco del Culo della Padania”. Ma che ci volete fare: pure qua, nella più forte delle loro roccaforti, la Lega si è talmente svenduta a Berlusconi che è ridotta a preoccuparsi più che altro di questioni folkloristiche... lasciamoli divertire. Sic transit gloria mundi.


capoliveri carpe diem

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portoferraio panorama tetti

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rio elba case panorama

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