E’ un aspetto positivo del governo avere seguito la strada del decreto legge nel tentativo di correggere le storture della L.133/08 e di demandare ad un disegno di legge le più consistenti riforme per l’ università e la ricerca. Buona cosa è avere recuperato risorse per le residenze e le borse di studio per gli studenti, poiché erano state ridotti del 60 % i fondi per il diritto allo studio e poiché , in linea con una interruzione della proliferazione di sedi distaccate. Buona cosa è anche lo sblocco nelle assunzioni dei ricercatori negli enti di ricerca ed il riservare il 60% delle nuove assunzioni nelle università ai ricercatori , così come il prevedere che una quota dei finanziamenti ordinari sia ripartita sulla base dei risultati dei processi formativi e delle attività di ricerca scientifica, nonché della riduzione dei corsi di studio e delle sedi didattiche. Detto questo ci sono poi della “ buone cose virtuali” se non proprio dannose. La prima riguarda le riassunzioni di docenti, ricercatori e personale tecnico-amministrativo , già previsto sulla base di un turn-over del 20% per tutte le università, ed ora portato al 50%, ma solo per quegli atenei che impiegano meno del 90% del fondo ordinario per le spese del personale. Per gli altri blocco totale. E’ indubbio che una economicità del sistema universitario deve essere uno degli obiettivi della riforma, ma non può essere limitata agli aspetti contabili senza considerare la qualità della didattica e della ricerca. Esistono molte istituzioni nazionali ed internazionali che classificano le università del mondo in base ad una articolata serie di parametri che riguardano: didattica, ricerca e servizi. L’Università di Shanghai pubblica annualmente quella che a livello internazionale è considerata la più curata ed attendibile classifica delle università del mondo (www.topuniversities.com). La prima università italiana, quella di Bologna compare al numero 192, altre sei università (La Sapienza, Politecnico di Milano, Padova, Pisa, Firenze, Federico II di Napoli) sono incluse fra 200-e 400. Sono poi citati altri tredici atenei italiani, oltre il quattrocentesimo posto, poi basta. Nel complesso sono censite 21 università, del centinaio che formano il panorama italiano fra pubbliche e private. Non sono numeri esaltanti e gratificanti, ma non c’è da sperare di più visti i fondi messi a disposizione per l’università e la ricerca nel nostro paese (Stati Uniti: 2,9 % del PIL: media OCSE: 1,5 %; UE: 1,3%; Italia : 0, 9). E’ una guerra fra poveri. Ma comunque con il criterio del 90%, università come Pisa e Firenze, sono tagliate, favorendo atenei neanche menzionati nelle classifiche internazionali. Il decreto riguarda inoltre nuove disposizioni per i concorsi dei ricercatori, e dei professori ordinari ed associati, in attesa delle procedure di riordino. Possiamo solo sperare che queste procedure di riordino arrivino in tempi brevi, poiché quelle contenute nel decreto non servono certamente per contenere i casi di illegalità e/ o malcostume dei concorsi universitari, molto probabilmente, là dove esistono, li allargheranno. Meccanismi concorsuali, che a parte gli aspetti di competenza della magistratura, o di una etica accademica da conquistare, con il loro carattere locale e la possibilità di fare degli idonei oltre il vincitore, hanno formato con la “3+2 “, il mixing che ha contribuito marcatamente alla proliferazione di corsi di laurea ed insegnamenti e alla provincializzazione degli atenei. I vecchi meccanismi, potevano certamente essere aperti alle cordate, ma per lo meno avevano un carattere nazionale, erano proclamati dei vincitori pari al numero dei posti banditi, i quali per tre anni dovevano prestare servizio fuori sede. I meccanismi concorsuali sono un aspetto di quella responsabilità, giustamente definita “ ibrida”, fra atenei e ministero che caratterizza l’ autonomia universitaria voluta da varie riforme del passato, ma rimasta a metà strada. L’ autonomia senza responsabilità e senza etica è stata la causa di molti guasti nel sistema universitario dalla quale sarà difficile uscire se una nuova cultura non penetra nell’ accademia, nella politica e nella burocrazia. Una nuova cultura che dobbiamo acquisire, a prescindere dai futuri disegni sull’ assetto della governance delle università, se vogliamo rispondere concretamente ai bisogni del Paese e delle nuove generazioni.
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