Chi fa lavoro politico si interroga spesso sul "che fare", ma succede anche che di tanto in tanto si ponga degli interrogativi più radicali che riguardano il senso stesso e il valore dell'agire politico. A chi non è capitato mai di chiedersi con una certa inquietudine: ma chi me lo fa fare? Certo, se si è politici di professione o di mestiere il problema della giustificazione razionale di ciò che si fa non sussiste. Lo stesso vale per quanti abbiano ambizioni di carriera politica e di potere, desideri di occupare cariche, interessi personali da difendere. E per quelli invece che svolgono un'altra attività lavorativa o di studio qual è la spinta che li induce a rinunciare a parte del proprio tempo libero e a impegnarsi nel gravoso lavoro politico? Si hanno buoni motivi per credere che la giustificazione razionale dell'agire politico avvenga mediante un ricorso ai principi morali, all'etica del dovere, al sacrificio per gli altri e così via. Ebbene, io ritengo che si può pervenire alla politica anche per un'altra via. Mi pare cioè che il fondamento razionale dell'agire politico possa risiedere altrove. Non in categorici imperativi etici, ma in un amore per la vita, in una gioiosa sorpresa che ci suscita l'esistente, in una compiaciuta constatazione di fare parte di ciò che è, di esserci anche noi. Insomma, si può fare politica perché "sentendoci vivi proviamo allegria". Perché abbiamo avuto fortuna, perché " ci è toccato l'essere invece del non essere": in poche parole, perché abbiamo sconfitto la morte nascendo. Il filosofo spagnolo Fernando Savater ha recentemente scritto un luminoso saggio (pubblicato su Micro/Mega, 1/97) partendo dalla constatazione che la vita e la morte si fronteggiano in una partita in cui nessuna delle due ottiene una vittoria sull'altra. Il match è nullo, come dicono i francesi; o in pareggio come diciamo noi. E' vero che l'esistenza non può mai sottrarsi alla fatidica falce della morte, ma è anche vero che l'esistenza e la vita celebrano il loro trionfo nell'atto di venire al mondo, della loro nascita, del loro emergere dal fondo nero del non essere. Con il certificato di nascita che possono sempre richiedere all'ufficio dell'anagrafe ed esibire in ogni circostanza, gli esistenti e i viventi recriminano la sconfitta del non essere, del nulla, della morte. Si viene al mondo e ci si sottrae al niente. Nell'esserci il nulla subisce un tragico e ineludibile scacco. Ed esso aspetta con pazienza una rivincita che inesauribilmente arriva con la morte. Ecco, questo rapporto vita-morte può essere visto da un lato o dall'atro. Ci si può compiacere e rallegrasi del fatto che la vita sconfigge il niente della morte o, al contrario, deprimersi e disperarsi perché la morte, alla fine, prevarrà. Questo guardare da una parte o dall'altra non è senza conseguenze. Se si è ossessionati dalla morte, dal fatto che la nostra vita un giorno finirà, allora la strategia della propria esistenza sarà tutta tesa a un disperato tentativo di sottrarsi alla condanna. Come? Con l'acquisizione di ricchezza e potere, con l'avidità, la cupidigia, l'accaparramento di denaro, ecc. Se invece si guarda dal lato opposto e si vede il trionfo che la vita segna sulla morte nell'atto della nascita, allora si può contrapporre alla morte, che è fatalità e controsenso, l'allegria che allevia l'esistenza affermando la libertà e il senso. "E' così che germogliano quegli artifici creatori di libertà e di senso che sono l'arte, la poesia, lo spettacolo, l'etica, la politica e persino la santità. La loro base comune è sempre la celebrazione felice della vita come evento cresciuto nell'ampio territorio della morte eppure paradossalmente in grado di rendere immortali. Insisto: non si tratta di negare o eludere l'evidenza della morte, bensì di alleggerire la vita del suo peso". Su questa base possiamo condannare l'avidità, la spasmodica ricerca di denaro e di potere, l'egoismo cinico che genera solo odio, non in nome di "sacri valori" ma, semplicemente, perché in tutti questi casi si è succubi dell'angoscia della morte, perché si tratta di scelte disperate e perdenti, perché si mettono in campo stili di vita destinati alla sconfitta e allo scacco. "Tutto è poco per chi teme da un momento all'altro di trasformarsi in nulla. Bisogna accumulare cibi contro la fame, armi contro il nemico, potere sociale per prevenire il pericoloso abbandono dei propri simili. A questo riguardo lo strumento più ambito è il denaro, perché con la sua capacità di metamorfosi adegua la difesa all'attacco imprevedibile e obliquo della morte". Non si può vincere la morte non morendo, mentre si può vivere la propria vita nell'allegra consapevolezza che la morte l'abbiamo sconfitta nascendo. Politica in allegria per noi significa azione volta al potenziamento della vita o all'alleggerimento della vita dall'ipoteca della morte. Perciò per noi la politica è soprattutto socializzazione, riscoperta e reinvenzione delle forme del vivere assieme, riappropriazione critica dei valori e delle tradizioni, ossia delle strategie mediante cui le popolazioni hanno affermato e difeso la loro vita collettiva, il loro modo di essere nel mondo. Non abbiamo difficoltà ad ammetterlo, anzi lo confessiamo con molta leggerezza: non siamo irresistibilmente attratti dai discorsi sul PIL (Prodotto Interno Lordo), né tantomeno da quelli sulla promozione dell'Italia nell'Olimpo delle potenze mondiali. Non ne siamo attratti perché, come dice Rodolfo Ambrosio, "non siamo soggetti a depressioni psicologiche". La politica come potenziamento della vita ci porta a valorizzare quel modo d'essere proprio dell'esistenza umana che è la socialità. La politica, dunque, come socializzazione. Riscoperta dei luoghi e dei tempi che la tradizione del vivere assieme ci ha consegnato. Riattivazione dei circuiti di incontro, di comunicazione e di dialogo. Rilancio della festa, dello spettacolo, del racconto e della rappresentazione. Riappropriazione e uso sociale del tempo libero. Una politica, dunque, non condizionata da logiche stataliste, ma volta a "ricucire i legami sociali,a ridare senso comune alla collettività". Certo, gli obiettivi più immediati della politica sono il buon governo e le buone istituzioni. Si fa politica per migliorare l'organizzazione dello Stato. Ma lo Stato sarebbe un obiettivo feticistico se ci si dimenticasse che esso è soltanto uno strumento per la ricerca del vivere bene della comunità. Comunità: ecco un termine che sembrava dovesse scomparire dal vocabolario della modernità e che invece ritorna con forza prorompente e diventa la "parola chiave nel dibattito politico-filosofico d'oltre oceano", il termine più in voga nelle discussioni accademiche, "nel lessico quotidiano e nei saggi degli studiosi", negli "editoriali di giornali e riviste" e tra gli scaffali delle librerie. Comunità: ecco un referente che dà senso al "politico" e che può dimensionare e orientare ogni pratica politica; ecco un soggetto capace d'essere il vero destinatario dell'allegra volontà di valorizzare e alleggerire la vita.