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Controcopertina: Anno (scolastico) nuovo, ministro nuovo e rinnovata confusione

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : martedì, 16 settembre 2008

L’anno scolastico inizia con un nuovo ministro e una rinnovata confusione. Il nuovo ministro appare tragicamente improvvisato: si sente che non ha gran confidenza col mondo e i problemi della scuola senza che questo turbi i suoi colleghi, perché tanto il suo compito è quello di operare tagli al bilancio dell’Istruzione. Si dice che il risparmio serva a compensare l’abolizione dell’ICI, come dire che si risparmia sul futuro per una briciola di consenso nel presente: tipico di questo governo e di quelli che lo hanno preceduto guidati dallo stesso premier; quando i bambini che oggi si iscrivono alla scuola per l’infanzia finiranno il loro percorso scolastico, il problema non sarà più suo. Il ministro improvvisato parla di “psicologismi” liquidando con una parola senza significato il lavoro trentennale di scienziati della pedagogia e della psicologia dell’infanzia, sostituito da un buonsenso da sala d’aspetto dentistico (quando a far dire banalità ci pensa la paura). “Il maestro unico è meglio di tre maestri più specializzati”: chi sa perché? Il ministro non lo spiega, ma spiega che costa meno, e per capire questo non importava essere ministri; e spiega che le risorse risparmiate serviranno a finanziare il dopo scuola (già, il vecchio, caro “doposcuola” per fare i compiti a casa). Per affrontare il futuro globalizzato si torna ai modelli di trent’anni fa; del resto anche il premier ha come modello un suo predecessore di settanta anni fa, come lui confortato da un gran consenso di popolo, come lui uomo della provvidenza, come lui fautore di una riforma della scuola –che consentiva ai laureati in legge di insegnare filosofia, tanto per quel che contava…–. L’attuale consente a una laureata in legge di riformare la scuola, tanto per quel che conta… (almeno quell’altro la riforma l’aveva fatta fare a Gentile, che nel bene e nel male sapeva quel che faceva). Oggi Marco Lodoli, su “Repubblica”, fa alcune riflessioni amare (e acute, come sempre) sulla scuola. Con pragmatismo pessimista si sofferma a considerare come le riforme più recenti (Berlinguer/De Mauro) hanno di fatto messo in crisi una scuola che funzionava egregiamente, costituendosi come radice “della scarsa autorevolezza culturale della scuola”. La grande accusata è l’autonomia scolastica, “che ancora passa come una conquista meravigliosa e che invece a mio avviso ha ridotto le scuole a negozietti con la merce sempre in saldo, con le svendite costanti e la qualità ridotta al minimo. Prima tutte le scuole dipendevano allo stesso modo dal ministero, avevano programmi unificati, facevano scelte coerenti. L’idea di fondo era che i ragazzi dovevano essere preparati ed educati secondo linee comuni, secondo i valori basilari della conoscenza e dell’uguaglianza. Da Ragusa al Brennero si condividevano metodi e aspettative, in un orizzonte democratico e popolare, magari un po’ noioso ma rassicurante per chi insegnava e per chi imparava. A un certo punto però si è deciso che ogni preside e ogni collegio dei docenti potevano gestire come meglio credevano le offerte e i percorsi formativi. Ogni scuola oggi elabora dunque il suo Pof, cioè il Piano di Offerta Formativa, e i ragazzi si iscrivono a questo o a quell’istituto leggendo depliant quanto più possibile accattivanti. Viene proposto il corso di teatro e quello di ping pong, la settimana corta e la settimana bianca, il cineforum e la gita fuori porta. La vetrina deve essere splendida splendente, altrimenti si rischia che i potenziali clienti non vengano dentro neppure a dare un’occhiata. Chi perde studenti, perde quattrini: il budget si assottiglia, la scuola arranca e rischia, se continua l’emorragia, di finire accorpata con qualche altra che invece ha la fila davanti al portone. Anche per questo, soprattutto per questo, a fine anno le bocciature sono ridotte al minimo: una scuola che promuove significa una scuola che va bene, che mantiene i suoi iscritti i quali, arcicontenti, ne parleranno bene in giro. Insomma, l’autonomia scolastica ha messo le nostre scuole in competizione tra di loro, esattamente come fa il libero mercato: ma il risultato non è stato un miglioramento dell’istruzione, così come la moltiplicazione delle televisioni non ha reso i programmi migliori e gli italiani più svegli e più colti”. C’è molto di vero in queste parole. Ma non era questo l’intendimento dei riformatori (del resto mi pare lo pensi anche Lodoli: “probabilmente in qualche scuola virtuosa questa raggiunta autonomia ha prodotto risultati eccezionali, ma direi che nell’insieme ha soltanto inoculato il virus dell’inadeguatezza nei professori, ha depotenziato il loro insegnamento, costringendoli a retrocedere al ruolo di intrattenitori, di venditori di pentole, di spaventati amiconi dei ragazzi”). Si immaginava una scuola in cui gli insegnati dovevano essere protagonisti, dovevano insegnare la propria sensibilità, la propria curiosità, la propria competenza ogni giorno nuova e cresciuta, facendo crescere insieme gli alunni, le loro famiglie, la società civile e la politica: una scuola, insomma, al centro della vita civile e democratica delle comunità. Le nuove tecnologie dovevano permettere scambi di idee e collaborazioni, ogni scuola doveva divenire laboratorio di metodi, di comunicazioni, di realizzazioni didattiche. In una scuola così immaginata il “giudizio” non era una faticosa parafrasi del voto numerico, ma un progetto annunciato e condiviso di intervento didattico, fuori da ogni dimensione competitiva, ma funzione di una crescita e di una conoscenza cooperativa. Perché non è avvenuto questo, e si è invece realizzato ciò che descrive Lodoli? Questo è il vero problema. E qui i governi che avevano pur prodotto le riforme si sono per primi mostrati impari al loro compito. Per rinnovare la scuola secondo il modello dell’autonomia scolastica occorrevano docenti e dirigenti di altissima qualità, di quella qualità che si raggiunge con il continuo studio, con l’aggiornamento culturale, con la partecipazione e con la dedizione che ha come premessa necessaria (seppur non sufficiente) una congrua remunerazione (con il conseguente riconoscimento di uno ‘status’ sociale di tutto rilievo). Ma quei governi si trovavano alle prese con problemi economici analoghi agli attuali, e non erano in grado di investire nella scuola, o avevano orientato diversamente le priorità. E allora, come sempre nel nostro Paese, si è trattato solo di una fuga in avanti. Popolo di geni, di santi e di navigatori, dopo aver inventato il Capitalismo senza capitali, il Mercato di Stato, la Potenza economica coi debiti, ci si era avventurati nella Scuola d’élite di massa, celebrando l’unico vero rito nel quale siamo specializzati: le nozze coi fichi secchi. Il ministro dell’Istruzione vuole fare la Scuola senza la scuola: gli alunni passano troppo tempo nei banchi; si deve ridurre l’orario. Come nel resto d’Europa, dice, dove però la scuola non è che sia granché. Intanto alle superiori i bocciati crescono del 2% dopo le prove di verifica di fine agosto (sono il 6% di quelli esaminati). Forse sono stati troppo a scuola. I bocciati totali nelle scuole superiori sono stati il 16,2 %, e quelli che hanno incontrato maggiori difficoltà sono stati gli studenti delle scuole professionali. Cioè quelli delle scuole considerate, volute, scelte perché “meno impegnative”. Non viene in mente a nessuno che laddove è minore l’impegno richiesto è minore anche l’interesse? E non viene in mente a nessuno che se ogni alunno costa nella scuola oltre 5.400 euro per ciascuno dei tredici anni di frequenza, ogni ripetente costa altri 5.400 euro per ogni anno che ripete? E se questo riguarda il 16,2% degli alunni delle scuole superiori (cioè riguarda 382.968 studenti) siamo certi che il costo del loro anno ripetuto (più o meno due miliardi di euro) non sarebbe investito meglio finanziando gli stipendi degli insegnanti?


Totaro media

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