Quello di Rulfo è il Messico più vero, quello delle emozioni senza limiti e senza tempo, quelle di chi ora è presente, di chi ha voglia di farsi coinvolgere, abbracciare dal bagliore del sole che si riflette sulle case e dalla lentezza di un carretto fra le agavi azzurre, o di un treno che sembra non arrivare mai da nessuna parte, non la faccia triste dell’America, ma quella che non conosce mezze misure, come gli occhi di Pedro, venati di sopraffazione verso chiunque, dolcissimi verso Susana, ancora di più verso il suo ricordo e rimpianto. Juan cerca suo padre, l’uno è vivo l’altro è morto, il tramite sono tutti gli abitanti di Comala, reale e irreale si fondono, vita e morte si confondono. Ciò che resta è la storia narrata su piani diversi, a volte convergenti, altre contrapposti, ma senza mai confondere il lettore. Perché solo un maestro della parola, in così poche pagine riesce ad annullare la cronologia, anzi a fare di questa sospensione temporale la forza incredibile della storia che vuole proporre, stravolgendo il rapporto fra spazio e tempo. Uomini polverosi vestiti di bianco, dai sandali di cuoio consumati, qualche machete a tracolla che si fa pesante di ritorno da una piantagione lontana, il profumo del lime o delle banane esplode dai sacchi gettati sulle tavole dei carri e stordisce i sensi di chi per caso ha avuto la fortuna di lasciarsi inebriare da quella magia. La faccia triste dell’America sintetizza tutto ciò che c’è di umano e soprannaturale, di sacro e profano, di contadino e filosofico, con Rulfo nasce probabilmente la letteratura Latino-Americana moderna, figlia soprattutto della sintesi fra una spiritualità perduta e una mai negata. Pedro e Juan, padre e figlio, chi anima chi corpo, ci si incontra alla Luna Dorada, qualcuno è morto, ma chi? La recensione completa nella rubrica: il libro Juan Rulfo Pedro Páramo Einaudi € 11,80
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