Vorrei svolgere qualche breve considerazione sul Parco Nazionale ed anche lanciare tre proposte, con il solo intento di provare a dare un contributo al dibattito di questi ultimi giorni. La prima cosa da chiarire è a cosa serve un Parco Nazionale. C’è chi dice che deve servire a conservare l’ambiente naturale e chi dice che deve servire a produrre un nuovo modello di sviluppo. La verità è che deve svolgere entrambe le funzioni. Un Parco serve sicuramente alla tutela del patrimonio naturalistico ed alla sua conservazione, ma anche a consolidare un modello di sviluppo sostenibile. Lo sviluppo non è una bestemmia e sarebbe bene non coprire di anatemi chi lo propugna; non si comprende altrimenti perché la legge 394 abbia immaginato tra gli strumenti fondamentali per la gestione di un Parco il Piano Pluriennale di Sviluppo Economico e Sociale. D’altro canto, come dice il mio amico Ermete Realacci, in Italia non abbiamo la cultura dei parchi deserti alla Yellowstone; crediamo, al contrario, in Parchi fatti di uomini e di donne che vivono, che lavorano, che crescono e che trasformano, che immaginano un futuro migliore per il proprio territorio. Neanche la tutela è peraltro una bestemmia, poiché è uno dei fondamenti per cui nasce un Parco. Nella scala dei ragionamenti generali, peraltro, ritengo che non possa essere considerato eretico chi, come me, ma anche come qualche insigne professore universitario, a distanza di dodici anni dalla nascita del Parco Nazionale si chiede (io da ignorante, il professore da scienziato), con grande preoccupazione, come mai in alcune delle aree più vincolate e con più limiti alle attività umane abbiamo perso parte significativa delle specificità e unicità naturalistiche per le quali sono stati immaginati vincoli così rigidi, mentre magari, quasi paradossalmente, le conserviamo nelle aree esterne al Parco. Non vorrei che, troppo abituati a guardare la luna, avessimo perso di vista lo stato pietoso in cui versano i castagneti di Marciana, ci fossimo fatti mangiare da cinghiali e mufloni viole, ciclamini ed orchidee rare e non fossimo stati in grado di contenere l’avanzata del dissesto idrogeologico, magari in nome del divieto, divenuto norma del Piano del Parco, di trasformare, nelle zone B, gli incolti in aree coltivate. Detto questo, mi piacerebbe fare tre proposte: 1. Che lo sviluppo delle aree del Parco divenisse qualcosa di più di un asserto e si sostanziasse in un Piano di sviluppo economico e sociale da approvare entro settembre in Comunità del Parco, lavorando, se necessario, tutta l’estate, immaginando obiettivi di crescita, azioni coerenti e linee di finanziamento definite; 2. Che tra gli obiettivi dello sviluppo vi fosse il rilancio, forte, dell’agricoltura di qualità, con precisi sostegni all’imprenditoria giovanile e femminile ed anche la nascita di un’economia del mare, fatta di pesca (mestiere antico), turismo sostenibile, strade del mare (soprattutto infraisola), acquacoltura biologica e diving; 3. Che nascesse un comitato scientifico, principalmente con il coinvolgimento delle università toscane, che studiasse approfonditamente, dopo dodici anni dall’istituzione del Parco, l’evoluzione degli equilibri naturalistici nelle aree tutelate, che individuasse le criticità nella tutela e suggerisse correttivi, che contribuisse ad una lettura scientifica e quindi laica e non ideologica dei fenomeni in atto. Questa proposta l’ho già formulata in un convegno a cui ha partecipato anche il Parco. Mi è stato risposto che il Ministero non sarebbe d’accordo e che nel Direttivo vi sono già adeguate professionalità. Con il massimo rispetto, mi permetterei di insistere. Credo che se facessimo queste tre cose vi sarebbero meno polemiche, i giornalisti avrebbero meno lavoro e ci sentiremmo tutti un po’ meno stolti e, forse, un po’ meno saggi (il che non guasta mai).
peria testona