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A Sciambere: Volevo i pantaloni (invece decresco felicemente)

Scritto da : Elena Maestrini
Pubblicato in data : domenica, 27 aprile 2008

Pensavo fosse una richiesta di poco conto ed anche a basso consumo: un nuovo paio di jeans per questa primavera. Invece mi sono trovata di fronte ad un estenuante pellegrinaggio dall’esito infausto. Per fortuna la mia autostima è più o meno strutturata, se invece fossi stata scossa dal vento dell’adolescenza non so come avrei reagito. In breve: taglia 44, con fianchi mediterranei? Quest’anno le case di moda (moda?) non hanno previsto questa tipologia di cliente. O meglio, al cliente in questione in cambio di un paio di jeans si chiedono alcuni pedaggi. In media dai 120 ai 180 euro per una specie di panta-collant che esaltano la cellulite e abbassano il “lato b”, una ridotta attività respiratoria per non esasperare le cerniere e un divieto assoluto: non portare le scarpe da ginnastica, perché sproporzionate in confronto al tubo strettissimo delle caviglie. Qui ho scoperto la mia incapacità di adattamento e quindi, per dirla con Darwin, le mie scarse possibilità di sopravvivenza all’interno del mercato. Infatti ragionando con la logica del mercato è stato un totale fallimento, avevo strozzato il Pil con le mie stesse mani. Niente compravendita di jeans e magliettina coordinata, niente acquisto di scarpe adeguate, niente consumo di buscopan per le probabili coliche addominali. Tornando a casa ho rispolverato i vecchi jeans, ho notato che non erano poi così male e che mi stavano leggermente più larghi rispetto allo scorso anno. Il morale si è risollevato (ed anche il lato b). Conclusione filosofica: il mercato rende tristi. Da qui la piena comprensione e condivisione delle tesi del filosofo francese Serge Latouche, riprese anche da Maurizio Pallante, della cosiddetta “decrescita felice”. In realtà la mia avventura era stata molto più radicale rispetto a questa nuova dottrina economica che non predica certo la rinuncia francescana dei beni mondani. Infatti il paradosso “decrescita felice” si ritrova nella spiegazione di questa corrente: consumare di più e meglio, senza generare danni al pianeta e contribuendo ad una nuova redistribuzione dei beni. Tutto questo non ha nulla a che vedere con lo "sviluppo sostenibile", dal momento che sviluppo significa aumento delle merci prodotte e scambiate con denaro, mentre qui si prendono in considerazioni i beni, cioè qualcosa con "una connotazione qualitativa, che offre vantaggi, che invece non pertiene al concetto di merce". Il dubbio pare inesistente: meglio consumare meno e inquinare, o consumare di più (vale a dire tutti) disinquinando? Per spiegare questo, Pallante usa l’esempio dello yogurt: "Un vasetto di yogurt prodotto industrialmente e acquistato attraverso i circuiti commerciali, per arrivare sulla tavola dei consumatori percorre da 1.200 a 1.500 chilometri, costa 10 euro al litro, ha bisogno di contenitori di plastica e di imballaggi di cartone, subisce trattamenti di conservazione che spesso non lasciano sopravvivere i batteri da cui è stato formato. Lo yogurt autoprodotto facendo fermentare il latte con opportune colonie batteriche non deve essere trasportato, non richiede confezioni e imballaggi, costa il prezzo del latte, non ha conservanti ed è ricchissimo di batteri. Lo yogurt autoprodotto è pertanto di qualità superiore rispetto a quello prodotto industrialmente, costa molto di meno, non comporta consumi di fonti fossili e di conseguenza contribuisce a ridurre le emissioni di CO2, non produce di rifiuti". Questa filosofia si può estendere molto oltre, fino ad arrivare ad una serie di facilitazioni fiscali per le aziende che producono abbattendo sprechi e imballaggi, che confezionano in loco, senza far fare alle merci tour europei per imbustarle, come l'esempio spassoso di Beppe Grillo a proposito della patatina fritta (nata in Westfalia, lavata in Sicilia, tagliata di nuovo in Westfalia, fritta in Svizzera e confezionata in Liguria). In questo modo anche la Tav non avrebbe ragione di esistere, si risparmierebbero montagne e tensioni sociali. Utopia? Forse sì. Doppia utopia, dal momento che personalmente la vedo come il fondamento di un neocomunismo dove alla lotta di classe si sostituirebbe una rivoluzione ambientalista. In questo caso il ricco non dovrebbe “descrescere felicemente” in favore del povero, ma solo per se stesso e per i suoi figli, nel nome dell'ozono. Di conseguenza anche il povero ne trarrebbe vantaggio. Chissà che questa spruzzata di egoismo (della volontà) non sia l’arma vincente.


jeans pantaloni

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