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Controcopertina: Portoferraio - La bandiera del Tibet in difesa dei diritti umani

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : domenica, 13 aprile 2008

Il Comune di Portoferraio, in riferimento ai gravissimi episodi di violenza verificatisi a Lhasa (Tibet) in occasione di pacifiche manifestazioni organizzate dai monaci buddisti e dai loro sostenitori , auspica il rispetto delle tradizioni spirituali e religiose, nonché il diritto all’autodeterminazione del popolo Tibetano e di ogni altro popolo minacciato; esprime la ferma condanna per l’ennesima violazione dei diritti civili dei monaci buddisti; solidarietà al popolo tibetano e alla politica nonviolenta di dialogo perseguita dal Dalai Lama nei confronti delle autorità cinesi per il riconoscimento dei diritti del popolo tibetano e delle libertà per tutta la Cina e le sue popolazioni; invita nell’occasione di tregua offerta dalle olimpiadi le autorità cinesi a realizzare un effettivo rispetto dei principi sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e nel Patto sui Diritti Civili e Politici per gli stessi cittadini della Cina e per tutti i popoli attualmente in essa organizzati. Perciò il Comune aderisce alla Campagna europea “Una bandiera per il Tibet” come già hanno fatto oltre 200 Comuni, Province e Regioni- perciò presso il Palazzo comunale si è esposta la bandiera del Tibet per testimoniare solidarietà al popolo tibetano e vederne riconosciuti i diritti con la cessazione del genocidio, fisico e culturale. Il Comune di Portoferraio Si allegano due documenti l’appello del DALAI LAMA e informazioni sulla bandiera tibetana. Allegato 1 APPELLO DEL DALAI LAMA AL POPOLO CINESE Marzo 2008 Oggi, estendo dal profondo del cuore i miei migliori auguri ai miei fratelli e sorelle cinesi nel mondo intero, e in particolare a quelli di loro che risiedono nella Repubblica Popolare Cinese. Alla luce dei più recenti sviluppi in Tibet, vorrei condividere con voi il mio pensiero circa le relazioni fra il popolo tibetano e il popolo cinese e rivolgere a voi tutti un appello personale. Sono profondamente rattristato dalle perdite di vite umane nei tragici e recenti eventi in Tibet. Sono consapevole che vi siano state alcune vittime anche tra i cinesi. Sono vicino alle vittime e alle loro famiglie, e prego per loro. Le recenti agitazioni hanno chiaramente dimostrato la gravità della situazione in Tibet e l’urgente bisogno di cercare una soluzione pacifica e reciprocamente benefica attraverso il dialogo. Persino in questo frangente ho espresso alle autorità cinesi la mia volontà di lavorare insieme per produrre pace e stabilità. Fratelli e sorelle cinesi, vi assicuro che non desidero una secessione per il Tibet, né intendo causare dissapori tra i tibetani e i cinesi. Al contrario, il mio impegno è sempre stato quello di trovare, per la questione tibetana, una soluzione autentica che garantisca gli interessi a lungo termine tanto dei cinesi quanto dei tibetani. La mia prima preoccupazione, come ho tante volte ripetuto, è assicurare la sopravvivenza della cultura, della lingua e dell’identità peculiari del popolo tibetano. Come semplice monaco che lotta per vivere la propria quotidianità secondo i precetti buddhisti, posso rassicurarvi circa la sincerità della mia motivazione. Mi sono appellato alla leadership della Repubblica Popolare Cinese affinché comprenda con chiarezza la mia posizione, e operi per risolvere questi problemi “cercando la verità nei fatti”. Sollecito i leader cinesi all’esercizio urgente della saggezza, dando inizio ad un dialogo significativo con il popolo tibetano. Faccio loro appello inoltre affinché mettano in atto uno sforzo sincero per contribuire alla stabilità e all’armonia della Repubblica Popolare Cinese, evitando di creare tensioni fra le sue diverse nazionalità. I media di Stato hanno tracciato, dei recenti eventi in Tibet, un ritratto ingannevole e distorto, che potrebbe gettare il seme di tensioni razziali con imprevedibili conseguenze a lungo termine. Questo è per me soggetto di grave preoccupazione. Similmente, malgrado il mio reiterato sostegno alle Olimpiadi di Pechino, le autorità cinesi, con l’intento di creare una spaccatura tra il popolo cinese e la mia persona, asseriscono che sto cercando di sabotare i giochi. Mi sento sostenuto, tuttavia, da diversi intellettuali e uomini di cultura cinesi, i quali a loro volta hanno espresso forte preoccupazione circa l’agire della leadership cinese e il potenziale sviluppo di conseguenze a lungo termine, in particolare sulle relazioni fra le diverse nazionalità. Fin dall’antichità, i tibetani e i cinesi sono vissuti come vicini. Nei duemila anni di storia scritta dei nostri popoli, abbiamo a volte sviluppato relazioni amichevoli, addirittura sancite da alleanze matrimoniali, e a volte ci siamo combattuti. Tuttavia, dacché il buddhismo è fiorito in Cina, ancor prima che giungesse in Tibet dall’India, noi tibetani abbiamo storicamente considerato il popolo cinese con il rispetto e l’affetto dovuto a fratelli e sorelle più anziani nel Dharma. Questo dato è talvolta ben noto ai membri della comunità cinese che vivono fuori dalla Cina, alcuni dei quali hanno assistito alle mie conferenze sul buddhismo, nonché ai pellegrini provenienti dalla Cina continentale che ho avuto il privilegio di incontrare. Tali incontri sono stati incoraggianti, e ritengo possano contribuire ad una migliore comprensione tra i nostri due popoli. Il ventesimo secolo ha visto accadere enormi cambiamenti in molte parti del mondo, ed anche il Tibet è rimasto coinvolto in queste turbolenze. Poco dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, L’Esercito di liberazione popolare entrò in Tibet e il risultato finale fu l’Accordo in 17 punti siglato da China e Tibet nel maggio 1951. Quando andai a Pechino nel 1954-55, al Congresso Nazionale del Popolo, ebbi modo di incontrare molti dei leaders più anziani e di stringere con alcuni di loro, compreso il Presidente Mao, relazioni amichevoli sul piano personale; egli mi consigliò su diversi argomenti, e mi rassicurò personalmente sul futuro del Tibet. Incoraggiato dalle sue rassicurazioni, e ispirato dalla dedizione che manifestavano molti dei leaders rivoluzionari cinesi del tempo, tornai in Tibet pieno di fiducia e di ottimismo. La mia speranza era condivisa anche da diversi membri tibetani del Partito Comunista. Tornato a Lhasa, feci ogni possibile sforzo per configurare per il Tibet un’autonomia genuina in seno alla famiglia della Repubblica Popolare Cinese (RPC): ero convinto che questo avrebbe servito nel migliore dei modi gli interessi a lungo termine tanto del popolo tibetano che del popolo cinese. Purtroppo, intorno al 1956 ebbe inizio in Tibet un’escalation della tensione, la quale si concluse col la sollevazione non violenta del 10 marzo 1959 a Lhasa e la mia definitiva fuga verso l’esilio. Sebbene molti sviluppi positivi abbiano avuto luogo in Tibet sotto il dominio della RPC, essi sono stati, come sottolineato dal precedente Panchen Lama nel gennaio del 1989, oscurati da una sofferenza immensa e da una distruzione su larga scala. I tibetani sono stati costretti a vivere in uno stato di costante paura, mentre il governo cinese ha continuato a vederli con sospetto. E tuttavia, invece di coltivare l’inimicizia nei confronti dei leader cinesi responsabili di una spietata repressione del popolo tibetano, io ho pregato affinché diventassero amici, esprimendolo nei versi di una preghiera che composi nel 1960, un anno dopo essere arrivato in India: "Possano conseguire la saggezza del discernimento tra ciò che è giusto e cosa è sbagliato, e dimorare nello splendore dell’amicizia e dell’amore". Molti tibetani, fra cui i piccoli scolari, recitano questi versi ogni giorno, nelle loro preghiere. Nel 1974, in seguito ad un serio dibattito con il Kashag (il mio Gabinetto), nonché con il Presidente e il Vicepresidente dell’allora Assemblea dei Deputati del Popolo Tibetano, prendemmo la decisione di seguire una Via di Mezzo che non avrebbe cercato di separare il Tibet dalla China, ma avrebbe facilitato un pacifico sviluppo del Tibet. Sebbene all’epoca non avessimo contatti con la RPC – che era nel mezzo della Rivoluzione culturale – avevamo già riconosciuto che prima o poi avremmo dovuto risolvere la questione tibetana per mezzo di negoziati. Riconoscemmo inoltre che, se non altro rispetto alla modernizzazione e allo sviluppo economico, sarebbe stato di grande beneficio per il Tibet rimanere in seno alla RPC: pur avendo un antico e ricco retaggio culturale, il Tibet è sottosviluppato dal punto di vista materiale. Dal Tibet, situato sul tetto del mondo, nascono molti dei maggiori fiumi dell’Asia, sicché la protezione dell’ambiente dell’altopiano tibetano è di suprema importanza. Sebbene la nostra massima preoccupazione sia la salvaguardia della cultura buddhista tibetana – dal momento che è così radicata nei valori della compassione universale – nonché della lingua e dell’unicità dell’identità tibetana, abbiamo operato dal profondo del cuore per conseguire un significativo autogoverno per tutti i tibetani, un diritto che la stessa costituzione della RPC prevede per nazionalità quali quella dei tibetani. Nel 1979, l’allora massimo leader cinese Deng Xiaoping garantì al mio personale emissario che "eccenzion fatta per l’indipendenza del Tibet, tutte le altre questioni possono essere negoziate". Avendo già deciso per un approccio che trovasse una soluzione alla questione tibetana all’interno della costituzione della RPC, eravamo pronti a cogliere questa nuova opportunità. I miei rappresentanti incontrarono molte volte i funzionari della RPC, e dacché i contatti si sono riallacciati nel 2002 hanno avuto luogo sei colloqui, senza che tuttavia questo producesse alcun risultato concreto sulla questione principale. Ciò nonostante, ho continuato ad aderire con fermezza all’approccio della Via di Mezzo, ribadendolo molte volte, e rinnovando con ciò la mia volontà di continuare a proseguire il dialogo. Quest’anno il popolo cinese attende con impazienza e fierezza l’apertura del giochi olimpici. Fin dall’inizio sono stato favorevole a che venisse riconosciuta a Pechino l’opportunità di ospitare le Olimpiadi, e la mia posizione non è cambiata: la Cina è oggi la nazione più popolosa del mondo, ha una lunga storia e una civiltà estremamente ricca. Oggi, grazie al suo impressionante progresso economico, sta emergendo quale grande potenza. E questo è certo benvenuto. Ma la Cina ha anche bisogno di guadagnarsi il rispetto e la stima della comunità globale, creando una società aperta e armoniosa, basata sui princìpi di trasparenza, libertà e legalità. Per esempio, a tutt’oggi le vittime della tragedia di Piazza Tienanmen, che ebbe ripercussioni negative sulla vita di così tanti cittadini cinesi, non hanno ricevuto né la giusta riparazione né una risposta ufficiale. Similmente, quando migliaia di comuni cittadini nelle campagne cinesi soffrono per l’ingiustizia perpetrata da corrotti funzionari locali, le loro legittime denunce vengono ignorate oppure rintuzzate aggressivamente. Esprimo queste mie preoccupazioni sia come membro della comunità umana che come persona pronta a considerarsi un membro di quella grande famiglia che è la Repubblica Popolare Cinese. In tal senso, apprezzo e sostengo la politica del Presidente Hu Jintao che mira a creare una "società armoniosa", ma essa potrà sorgere soltanto sulla base di una reciproca fiducia e in un’atmosfera di libertà, ivi compresa la libertà di parola e il principio della legalità. Credo fermamente che se questi valori saranno accolti, si risolveranno molti degli importanti problemi che riguardano le minoranze, quali le questioni del Tibet, del Turkistan orientale e della Mongolia interna, ove le popolazioni autoctone oggi costituiscono solo il 20% di una popolazione totale di 24 milioni di persone. Avevo sperato che la recente dichiarazione del Presidente Hu Jintao secondo la quale la stabilità e la sicurezza del Tibet riguardano la stabilità e la sicurezza del Paese potesse annunciare l’alba di una nuova era per la soluzione del problema tibetano. Sventuratamente, i leaders della RPC continuano ad accusarmi d’essere un “separatista” malgrado i miei sinceri sforzi per non separare il Tibet dalla Cina, e similmente, quando i tibetani di Lhasa e di molte altre regioni hanno protestato spontaneamente per esprimere un risentimento profondamente radicato, le autorità cinesi mi hanno immediatamente accusato di aver orchestrato tali dimostrazioni. Ho richiesto che venisse condotta un’inchiesta approfondita da parte di un organismo autorevole per verificare i fondamenti di questa loro accusa. Fratelli e sorelle cinesi, ovunque voi siate, è con profonda preoccupazione che mi appello a voi per dissipare ogni equivoco fra le nostre due comunità. Inoltre mi appello a voi affinché ci aiutiate a trovare una soluzione pacifica e durevole al problema del Tibet attraverso il dialogo, in uno spirito di comprensione e conciliazione. Con le mie preghiere, Il Dalai Lama ALLEGATO 2 Simbologia della bandiera tibetana 1. La gloriosa e bellissima montagna bianca, situata al centro, simboleggia la grande nazione tibetana, famosa per le montagne innevate che la circondano. 2. I sei raggi di luce rossa diretti verso il cielo simboleggiano le sei tribù del Tibet: Se, Mu, Dong, Tong, Dru e Ra. 3. L’alternanza del colore rosso e del colore azzurro del cielo simboleggia la continua ricerca della retta condotta morale necessaria per mantenere e proteggere la legge spirituale e la legge temporale sancita dalle due divinità tutelari, una rossa e una nera, che hanno protetto il Tibet nel corso dei tempi. 4. I raggi emanati dal sole nascente sopra il picco della montagna innevata, simboleggiano l’eguale godimento, da parte di tutti i cittadini tibetani, della luce della libertà, della felicità spirituale e materiale e della prosperità. 5. La posizione della coppia di intrepidi leoni di montagna, il cui coraggio è suggerito dalle cinque sporgenze sulla sommità della loro testa, simboleggia il totale successo contro tutte le avversità delle azioni intraprese dal governo spirituale e secolare della nazione. 6. I tre gioielli colorati sopra ai leoni, bellissimi e radiosi di luce, simboleggiano la continua venerazione da parte del popolo Tibetano delle Tre Preziose Gemme, oggetti del rifugio. 7. Il mulinello della gioia, sorretto dai leoni, simboleggia l’osservanza della dirittura morale secondo le somme tradizioni rappresentate dai dieci precetti divini di virtù e dalle sedici regole etiche della vita laica. 8. Il bordo giallo simboleggia il fiorire e lo sviluppo degli insegnamenti del Buddha, paragonabili all’oro purissimo, attraverso spazio e tempo senza limiti.


Tibet Bandiera

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