Caro maestro Rossi, ti scrivo dopo anni, pubblicamente, nella speranza di trovarti ancora immerso nelle tue letture, tra la biblioteca polverosa della tua casa, affacciato alla finestra a guardare la Fortezza Nuova, sui fossi, al sole. Ti scrivo per dirti che il passaggio c’è stato. Che il compito di consegnare la memoria agli altri l’ho compiuto. E’ stato qualcosa di forte, intenso, totale. E’ stato qualcosa di importante: passare il testimone della Storia, sempre, finché si può, nel tentativo follemente ottimista che l’uomo impari dal passato. E mentre salivo verso l’Ossario di Sant’Anna di Stazzema, con la mia classe – ragazzini di tredici anni cresciuti tra le colline riesi e il mare, sorridenti, pasolinianamente allegri, tutto sommato felici in una Europa pacificata, ragazzini che conservano, come me, una genuina, ma pericolosissima innocenza della sofferenza, della povertà, della guerra -, ecco, mentre salivo con loro ti ho ricordato. Era di questi tempi primaverili che tu, in maniche di camicia, ex-partigiano combattente, ci conducevi con ostinata ed incrollabile fiducia nei luoghi della memoria, alle commemorazioni dell’ANPI, alle celebrazioni del 25 aprile. E stavi silenzioso e commosso, con le braccia incrociate sul petto, in piedi, come se il tuo corpo, un corpo-testimone, un corpo-fonte, richiedesse tutto un contegno, un coraggio particolare per sorreggere il peso della Liberazione. Siamo saliti fino all’Ossario di Sant’Anna di Stazzema con Enrico Pieri, settantenne, uno dei pochissimi superstiti ancora vivi e che da piccolo riuscì a scampare all’eccidio compiuto dalle SS tedesche con la collaborazione logistica e operativa dei repubblichini di Salò. Enrico Pieri aveva dieci anni quando alcuni battaglioni tedeschi, il 12 agosto del 1944, circondarono Sant’Anna e, non per rappresaglia, non per combattere gruppi partigiani, ma per un’operazione di terrorismo contro le popolazioni civili che rientrava nella strategia militare di Kesserling, trucidarono più di 560 persone tra donne, vecchi e bambini. Enrico riuscì a salvarsi, emigrò in Svizzera e torno in Italia soltanto negli anni ’90, convinto che di Sant’Anna non avrebbe mai più parlato. Adesso lo fa, una tosse che maschera la commozione gli spezza il racconto più volte, ma lo fa. Passando davanti alla piazzetta della Chiesa dice: “Io qui non vedo quello che vedete voi. Non vedo questo prato ben tagliato, la facciata rifatta. Vedo un mucchio di cadaveri carbonizzati, che ancora fumano, vedo i rivoli di sangue colare lungo i lati”. Già perché qui, di fronte al sagrato della Chiesa, le SS ammassarono più di cento persone, gli uccisero con le mitragliatrici e poi dettero fuoco ai cadaveri. Il signor Pieri ha perduto madre, padre e sorelle nell’eccidio. E’ un orfano di guerra. Dice che il perdono è una cosa individuale, soggettiva e preferisce non parlarne. Poi ci porta a vedere l’ “organo della pace”. Quest’organo venne mitragliato e semidistrutto. Alcuni anni fa due musicisti tedeschi, marito e moglie, dopo essere stati qui ed aver conosciuto la storia di questo paese, hanno deciso di restaurare l’organo. Hanno raccolto alcuni finanziamenti in Germania e adesso organizzano, una volta all’anno, una serie di concerti proprio nella Chiesa di Sant’Anna. Sembra che nello sconfinato dolore che provoca la lacerazione della tragedia, nel trauma del vissuto rievocato ad ogni “ricordare e narrare”, Enrico Pieri trovi in questo strumento della pace, nelle scolaresche che salgono fin qua su (4000 classi nell’anno scolastico in corso) un simbolo di speranza, di utilità del ricordo e della memoria, un significato a cui aggrapparsi, qualcosa che attribuisca un senso all’esperienza disumana della guerra. Caro maestro Rossi era questo il tuo insegnamento più prezioso? Questo l’obiettivo formativo principale: la coscienza civile, l’umanità, l’indignazione davanti alle ingiustizie, il rifiuto radicale di una cultura della violenza e della paura, la condanna dei “mali assoluti”, del nazi-fascismo, del totalitarismo? Era questo Andrea Rossi? Io aspetto qui la tua risposta. L’aspetto con i celebri versi di Piero Calamandrei iscritti sulla lapide “ad ignominia” nell’atrio del Palazzo Comunale di Cuneo. Lo avrai camerata Kesselring il monumento che pretendi da noi italiani ma con che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi. Non coi sassi affumicati dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio non colla terra dei cimiteri dove i nostri compagni giovinetti riposano in serenità non colla neve inviolata delle montagne che per due inverni ti sfidarono non colla primavera di queste valli che ti videro fuggire. Ma soltanto col silenzio del torturati più duro d'ogni macigno soltanto con la roccia di questo patto giurato fra uomini liberi che volontari si adunarono per dignità e non per odio decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo. Su queste strade se vorrai tornare ai nostri posti ci ritroverai morti e vivi collo stesso impegno popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre resistenza.
Sant anna stazzema