In una pubblica discussione sui parchi della Toscana ho sostenuto una posizione che è parsa fuori dal coro e che vorrei meglio precisare rispetto a quanto riportato, visto che il tempo a disposizione non mi ha permesso di sostanziare il ragionamento. E visto che il vento della polemica strumentale soffia sempre impetuoso. Partivo dalla crisi mondiale, che non è tanto quella che attanaglia i mercati, quanto piuttosto quella che riguarda un mondo che si è ormai lanciato oltre il limite naturale imposto dalla natura alla crescita economica esponenziale. Voglio dire (come ho pure scritto su La Stampa) che qui non si tratta di sovrastrutture economiche, ma della struttura naturale di base, quella stessa che ha reso ricchi i Paesi più forti, ma che è messa in pericolo dagli effetti del cambiamento climatico, dall’integrazione delle nazioni effluenti e dal fatto che nessuna crescita risulta più sostenibile per il pianeta. Mi rendo conto che si tratta di un’espressione forte, ma non è frutto di slancio ideologico, piuttosto di un ragionamento sui dati di fatto che è stato già condotto teoricamente da cosiddetti eco-economisti (per esempio Meadows) ma anche da teorici “destrorsi” (come de Benoist). E che trova continue prove nelle società industriali avanzate come nei Paesi in crescita. Che ancora non ci si accorga della non pertinenza di una frase contraddittoria come “sviluppo sostenibile” è, a mio avviso, piuttosto grave, come è grave che non ci si accorga che non sarà mai possibile portare tutti gli abitanti del pianeta al livello di benessere (di spreco) della nazione più ricca. Per la semplice ragione che gli uomini sono sempre di più, le loro esigenze crescono, ma il pianeta resta sempre quello: eccessiva pressione demografica, fine delle risorse e delle fonti energetiche tradizionali, prezzo ambientale elevato da pagare non sono elementi di discussione per circoli ambientalisti, ma la dura realtà con cui tutti stanno per fare i conti. E non si dovrebbe ormai ignorare che, se i poveri del mondo volessero oggi consumare come i ricchi, il pianeta sarebbe già distrutto. Non è un problema tecnologico, visto che, quasi sempre, la tecnologia provoca più problemi di quelli che risolve (e comunque non può non basarsi anch’essa su risorse per definizione esauribili), ma di limiti. E gli uomini non amano il concetto di limite e, anzi, si illudono che non toccherà mai a loro incassare il colpo, ma sempre a qualcun altro, che, in ogni caso, sempre umano sarà. Purtroppo uno sviluppo infinito non è possibile, come non lo è una crescita continua e senza soste del PIL: l’economia è piuttosto un sottosistema della biosfera e quando l’espansione economica attacca le basi naturali dell’ecosistema, si sacrifica un capitale naturale che ha un valore superiore a quello che si ottiene. Si tratta, in ultima analisi, di una crescita che impoverisce invece di arricchire, quasi un’antieconomia (come la definisce Herman Daly), da cui qualcuno può comunque trarre vantaggi, ma per cui tutti gli altri entrano inevitabilmente in sofferenza. E questo succede anche all’Elba: prima c’era una ricchezza diffusa e tutti avevano un orto, magari integravano con la pesca e affittavano due camere o avevano una ristorazione. Oggi la ricchezza tende a concentrarsi nelle mani di pochissimi, spesso stranieri, e gli altri tendono ad andarsene via. Non si comprende che qualunque sottosistema, come quello economico, deve smettere di crescere e sottomettersi, invece, alle leggi che regolano il mondo naturale: un’economia in crescita perenne è semplicemente un’impossibilità biofisica. Se anche i portatori d’interesse delle realtà turistiche italiane cominciassero a comprendere che il capitale economico non può sostituire il capitale naturale, forse faremo qualche passo avanti. Se si capisse che le scelte ambientali –pur obbligatoriamente di natura politica— dovrebbero essere guidate da chiari dati scientifici, sarebbe più facile difenderle contro chi, proprio su basi esclusivamente politiche, vuole spostare sempre più in là la ineludibile fase critica in nome di un piccolo tornaconto personale che fa passare in secondo piano tutto il resto. Così i parchi naturali: se rispondono solo a logiche politiche dipenderanno dalle maggioranze del momento e saranno aiutati dagli uni e screditati dagli altri. Se sono invece vincolati a necessità scientifiche di salvaguardia della natura saranno indifferenti ai cambi di maggioranza e difesi trasversalmente. E eviteranno di trovarsi in difficoltà se non producono reddito: siamo tutti contenti che si facciano soldi sulla protezione della natura, ma la ragione istitutiva dei parchi è sempre quella della conservazione e tutela dell’ambiente naturale, se vengono gli affari tanto meglio, sennò ci si guadagna comunque in qualità dell’ambiente. Finalmente un valore di fronte a tanti prezzi.
Mario Tozzi