Quasi sconfitto - scrive Marino Garfagnoli riese d'origine ed assessore portoferraiese alla cultura - dalla fatalità che sento sempre di più opprimente su questa isola e su questa parte di isola, volevo soffrire in silenzio di fronte alla notizia della definitiva perdita di Vigneria e della bisarca e tutto quello che essa rappresenta per la nostra storia e per la nostra cultura e per me. E' davvero assurdo essere arrivati a questo punto senza che nessuna istituzione abbia progettato quello che lì andava "naturalmente" fatto. E così, dopo la scomparsa di Ennio Mercantelli, grande minatore e sindacalista, con il quale spesso ci immaginavamo un futuro diverso per quegli impianti, è significativo che si decida definitivamente per la vendita di un pezzo di storia e di cultura della nostra terra mineraria. Mi sembra utile riportare quello che scrivevo, nel 2004 (ancora purtroppo molto attuale) quando tutti si scandalizzarono per la paventata vendita al CONI delle nostre miniere. Anche oggi dovremmo preoccuparci. Marino Garfagnoli E’ vero, forse, come qualcuno ha scritto, non le abbiamo mai amate tanto. Sicuramente noi no. Anche coloro che di esse hanno vissuto tutta la vita non le hanno amate. Però, sicuramente avevano un rapporto molto articolato con quelle valli di pietra, di terra e di fango. Un rapporto di rispetto, verso quella cosa, della natura, che ti dà da vivere. Di una vita semplice, ma vera. Quel lavoro era così, difficile e spesso, specie negli anni più lontani, faticoso e massacrante. Non ho fatto in tempo a parlare di queste cose col “mi babbo”, mi ha lasciato troppo presto, e sicuramente mi sarebbe stato utile conoscere dalla sua voce le cose che lui pensava sulla miniera di Rio che “bruciava, bruciava da secoli e ce ne sarebbero voluti altrettanti per spegnerla”. Col “mi nonno” ho avuto anche meno tempo per parlarne, dato che era di quelli che preferivano l’acquavite al prete, e così quell’abitudine di bisboccia presa durante il faticoso lavoro in cava se l’è portata dietro fino alla fine, lasciando pochissimo tempo alle discussioni un po’ più difficili. In quegli anni, quasi l’ultimo decennio prima della definitiva chiusura, si respirava ancora, nei paesi del ferro, oltre alla polvere di pirite e di ematite, quell’aria di comunità sana, che faceva quadrato verso l’esterno, che difendeva i suoi luoghi e le sue cose, di cui anche la miniera faceva parte. Tutti, coloro che ci lavoravano, prima di altri, sapevano che le miniere si sarebbero spente, non dovevano ancora passare migliaia di anni, solo pochi decenni e poi il fuoco acceso dai fabbri etruschi si sarebbe spento. Molti conoscevano il grande valore di quelle terre, ma stentavano a capire come tutto si sarebbe di nuovo trasformato in lavoro. Quel paese, quei paesi non ci sono più. Carichi, come gli antichi bastimenti che arrivano alla Piaggia, di miniere e di minerali, carichi di uomini con le loro storie, con le schiene spezzate dalla miniera e dai minerali. Oggi nuovi profeti ci parlano di una civiltà che sta scomparendo, di nuovo parlano di miniere e minerali, ci riempiono la testa di chiacchere, parole, parole per le quali il “mi nonno” avrebbe cominciato in anticipo l’ennesimo giro delle tante bettole di Rio. Addirittura si inventano, con la complice collaborazione di opportunisti di turno, novelle forme di prostituzione, mostre mercato in cui non vi sono più gli uomini, le miniere, i minerali, gli attrezzi, il picchio, la mazzetta, la marra, lo zappone, le ferrovie decauville, con relativi vagonetti a bilico tipo 25C, le locomotive Orenstein-Koppel (hanno lasciato che tutto questo enorme patrimonio venisse depredato per arredare qualche villa patrizia o altro che non so immaginare); non c’è più niente di tutto questo ma solo banchettini ambulanti per vendere gli scherzi, come facevamo, molto meglio, noi da bambini sulla murella del Sasso. Molto meglio perché i nostri scherzi venivano dalle nostre miniere. Le miniere si spensero. Cosa fare. Come trasformare questa ricchezza, che oggi è solo edifici fatiscenti, macchinari arrugginiti, impianti barcollanti e migliaia di ettari di terra sconvolti dalla continua e forsennata (specie negli ultimi anni) escavazione. E’ da allora che qualcuno iniziò a parlare di Parco delle Miniere. Agli inizi degli anni 80 si costuì il gruppo di studi che dette vita al Sistema Museale dell’Arcipelago Toscano, che conteneva in embrione la primigenia idea di un’area protetta necessaria per salvaguardare l’esistente, valorizzare le risorse culturali e ambientali, trasformare in lavoro (ricchezza) il notevole patrimonio insulare, assicurando il passaggio da un’economia primaria ad una basata sul terziario. Certo alcuni pezzi di Elba erano già lanciati, in questa direzione, e forse in alcuni casi hanno preso le scorciatoie sbagliate, e il nostro versante, quello delle miniere e dei minerali, era rimasto al palo, incapace di progettare il futuro, incatenato tra l’incapacità degli amministratori e la battaglia delle scartoffie prodotte da contenziosi assurdi tra stato e stato. Vi erano delle necessità impellenti, soprattutto per conservare un pezzo del patrimonio culturale di quel mondo di pirite, di ematite, limonite, e altri ossidi e solfuri. Preservare gli impianti dal decadimento, dal degrado e dalla scomparsa, preservare dalle stesse, l’enorme patrimonio edilizio. Ricordo, sempre in quegli anni, fine anni ’70, cosa scriveva Alberto Riparbelli. “Osserviamo come l’isola d’Elba sia per l’archeologia industriale una campo di studio eccezionale. Quindi è della massima importanza ed urgenza preservare dal degrado e dalla distruzione i superstiti monumenti industriali. Perciò occorre eseguire un censimento completo … così si potrà concretizzare col restauro e il riuso un ampio MUSEO DEL FERRO all’aperto che risulterebbe senz’altro il più importante del mondo”. Alberto non è più con noi a parlare di miniere e di minerali, e sarebbe scandalizzato (e sicuramente si potrebbe aggiungere qualche altro colorito aggettivo) dagli ultimi sviluppi sul futuro di queste terre del ferro. Oggi ancora non sappiamo quello che abbiamo, nessun inventario è mai stato pensato, ma addirittura non lo sapremo mai perché la maggior parte delle attrezzatura è stata portata via. Diceva sempre Alberto: “…dopo il successo della miniera-esposizione di Beckley nel West Virginia, i progettisti hanno realizzato altre città museo in cui si prevede una cauta riconversione dei fabbricati ottocenteschi per un nuovo uso commerciale, culturale, in alcuni casi anche ricettivo, mentre gli impianti industriali devono essere conservati nel loro stato migliore … altri tipi d’intervento quali il Bergbau Museum di Bochum e l’Ironbridge Gorge Museum rappresentano altrettante felici realizzazioni nel campo dell’archeologia industriale”. Ma il nostro MUSEO DEL FERRO sarebbe stato il più importante del mondo. Credo che abbiamo perduto la strada per arrivarci. Oltre ad aver perduto il patrimonio, fatto di impianti, monumenti, attrezzature, strutture e infrastrutture. Abbiamo (o meglio hanno) gestito tutti questi anni, quasi trenta, sprecando risorse, denari pubblici per inutili realizzazioni (anfiteatro), inutili progetti (villaggio-paese, chissà di chi è stata l’idea di tale bizzarro -evitando di definirlo con altro tipo di aggettivo- nome). Si sono continuati ad immaginare le miniere e i minerali come qualsiasi posto dove si va a raccogliere qualcosa, a cercare gli scherzi, come quando nel passato, i turisti, specie stranieri, meglio di noi, sapevano che il sabato si poteva accedere in miniera. Si creava, in paese una lunga fila di auto che lentamente giungeva sino alla cava e lì, uomini, donne, bambini, con attrezzi di ogni genere (anche pinze, cacciaviti, coltelli) o semplicemente con le mani, cercavano chissà quali preziosi cristalli. Non questo non è il MUSEO DEL FERRO del quale parlava Alberto Riparbelli. Oggi molte voci si sono levate contro l’ipotesi di vendita delle miniere e dei relativi minerali al CONI. Certo è scandaloso che qualcuno possa immaginare una simile soluzione per risolvere problemi economici di enti, spesso inutili. E anch’io sono indignato. Ma sono più indignato e scandalizzato dal fatto che molti decenni sono passati senza che niente si sia realizzato per valorizzare e recuperare quel grande patrimonio che doveva diventare il museo del ferro più importante del mondo. Come dire, se oggi non c’è niente è più facile vendere. Gli assessori dichiarano che se la vendita avverrà, anni di lavoro rischiano di andare in fumo: ma hanno visto che cosa è stato realizzato nelle miniere. Niente. Di cosa sto parlando, ma davvero politici, amministratori, assessori non hanno capito di cosa stiamo parlando da molti anni. Non stiamo parlando di interventi minimi, come piccoli musei, non stiamo parlando di cementificazioni facili sulla costa, non stiamo parlando di infrastrutture nuove ed inutili, stiamo parlando di percorsi archeo-minerari, di un centro museale ed espositivo unico al mondo, di centri visita didattici ed informativi, di centri di sperimentazione siderurgica, di poli scientifici interuniverstiari, di impianti di archeologia industriale che il mondo ci invidiava, di emergenze naturalistiche uniche e rare, di beni paesaggistici di estrema suggestione e carichi di atmosfera, per i quali (e solo per uno di essi) ogni visitatore, ogni turista può trovare la giustificazione per vedere, soggiornare, ritornare, e promuovere le miniere e i minerali. Spesso ho sentito, a proposito dei monumenti di archeologia industriale: “ma sono pericolosi, crollano, sono pieni di ruggine”. Esiste obiezione più stupida? Dopo anni di completo abbandono in cui si è pensato solo al villaggio paese ed altre simili amenità. Infatti sempre Alberto scriveva “…teniamo presente che quando le società abbandonano le miniere a cielo aperto, come è il nostro caso, lasciano un territorio sconvolto, modificato, che richiede grossi sacrifici commutativi per riportarlo ad un ambiente fruibile. Ecco perché l’archeologia industriale rappresenta la soluzione ideale per un così grosso problema”. Esiste ancora un modo per evitare la completa regressione delle miniere e dei minerali. Tanto più che oggi, buona parte del comprensorio rientra nel perimetro del Parco Nazionale (e purtroppo anche lì non tutto funziona come dovrebbe). Miniere e minerali. Ho usato spesso i due termini insieme perché avevo nella mente la scena verificatasi durante l’ennesimo convegno di qualche anno fa. Scienziati, professori, tuttologi, che parlavano del grande patrimonio, ognuno con la sua ricetta e col suo orticello da coltivare. Ad essi si rivolse col il suo consueto, colorito ed incontenibile stile l’amico Elvio Diversi (anche lui con qualche responsabilità per non aver trovato la giusta strada): “miniere e minerali, tutti venite qui a parlarci di miniere e minerali come se noi non li conoscessimo, tutti ci dite cosa dovremmo e non dovremmo fare, miniere e minerali, solo parole”. Ho il sospetto che in tutti questi anni nessuno di coloro che aveva la responsabilità delle decisioni politiche conoscesse davvero le miniere e i minerali. Le conoscessero quanto quegli uomini, della vena del ferro, che non ci sono più e che non si spiegherebbero davvero come mai in quella terra di ferro tutto è cambiato in peggio e come mai qualcuno vuol cedere le miniere e i minerali a quelli che fanno i giochi della gioventù. Forse esiste ancora un modo, quello di smettere di parlare delle miniere e dei minerali e di iniziare realizzare quei progetti e quelle idee delle quali essi hanno bisogno per non scomparire per sempre.
minerali pirite