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Philip Roth. Everyman

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : martedì, 02 ottobre 2007

Dimenticare Portnoy, dimenticare la Pastorale, dimenticare Sabbath, dimenticare le pulsioni vitali che scandiscono l’esistenza. Passioni e istinti che sostengono i personaggi e le loro storie, a volte paradossali, spesso estreme e carnali. Roth non ha mai rinunciato a proporsi come testimone del suo tempo, consapevole e fiero di avere qualcosa da dire: la vita e le sue emozioni affrontate a viso aperto, come strumento per interagire con tutto quanto lo circonda, dall’ateismo giudaico (di apparentemente vincenti personaggi di apparente tempra ariana, nell’America delle mille razze), fino alle psicoanalitiche masturbazioni figlie di una società dell’eccesso, Un unico punto di vista fino ad ora: lo sguardo in avanti, cogliere ogni dettaglio per addentrarsi nella società americana, ma anche nel quotidiano di chiunque, quasi a scandire una velata ansia di affermazione. Pochi possono permetterselo. Roth può scavare nella parte più recondita di ciascuno inconscio e sbattercelo davanti come fosse uno specchio, ma anche una mano tesa verso il buio che potrebbe essere luce, non è lui che ci guida, siamo noi a voler andare, la decadenza è solo apparente, per rivelarsi poi un’occasione che impedisca all’individuo di annullarsi e scomparire. Pastorale Americana è un invito costante alla condivisione: Zuckerman ci vuole con lui, non vuole restare solo nella ricerca della figlia fuggitiva-dinamitarda-anoressica, in Cosa bianca Nostra (mai ripubblicato in Italia da Bompiani) l’autore ci vuole testimoni di tutti i paradossi che lo divertono. Niente Zuckerman, niente Kepesh, niente Portnoy. Una copertina nera come il lutto e un titolo indefinito, volutamente ambiguo a mascherare l’universalità della pochezza dell’individuo, a stravolgere le dinamiche di una continua sfida all’esistenza, il buio della fine mascherato da voluta incoerenza, da iperattività sessuale, da narcisistica presenza. Il personaggio senza nome nasce al suo funerale, guarda la vita e ne ha inconsciamente paura, ogni palata di terra lo rende vero, non letterario ma presente nella quotidianità di chiunque sappia che la morte è solo uno strumento. Per chi ha un minimo di “frequentazione” con Roth non è una sorpresa, la morte esiste, inutile esorcizzarla con promesse di paradisi veri o illusori a seconda del livello di fede, ma intanto perché nascondersi, la memoria è solo l’inevitabile appiglio a qualcosa che ci sforziamo di reputare altro, siamo qui, di fronte ad una copertina nera a nascondere le nostre paure che ad un certo punto qualcuno ci sbatte in faccia, non la fine in quanto tale ma il percorso, unico e personale, che si compirà nel momento in cui avremo il coraggio di guardarci dentro. Ognuno indistintamente e senza declinare le generalità. «Perché la morte è così ingiusta. Perché quando uno ha gustato il sapore della vita, la morte non sembra nemmeno una cosa naturale. Io credevo, dentro di me ne ero certo, che la vita durasse in eterno». Non è l’idea della morte a fare male, ma l’individuo stesso, il corpo segnato e la coscienza ferita. Non c’è poesia nell’elenco dei fallimenti e delle operazioni chirurgiche, tre mogli, troppi by-pass, due figli che non lo amano, un unico amore vero per la figlia Nancy, ma anche questo forse è solo rimpianto. È inevitabile chiedersi se sia giusto dimenticare tutti i personaggi, dimenticare gli eccessi vitali che caratterizzano l’opera di Roth. Basta non avere paura della verità, della scoperta (o conferma) dell’inevitabile decadenza, della perdita di qualunque certezza, anche quelle che sembravano assolute. Per questo la narrazione è quanto mai essenziale, le altre storie poco importanti di fronte all’uomo senza nome, alla sua sfrontatezza che si rivelerà vana nel momento in cui la vita chiede il conto. Non c’è lieto fine in un romanzo che inizia con un funerale e si chiude dopo un colloquio con un vecchio becchino. Eppure la cosa che davvero colpisce e che ha fatto di questo libro uno dei più controversi di Roth, è l’immediatezza di alcune immagini, la durezza di certe descrizioni, nessuno esorcismo letterario, anzi il desiderio di proporre come semplicemente inevitabile qualcosa che spesso è più facile far finta di dimenticare. «La cosa più straziante è sempre la normalità, il constatare ancora una volta che la realtà della morte schiaccia ogni cosa». Philip Roth Everyman Einaudi € 13,50


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