Faccio un po’ fatica a credere che le parole riportate tra virgolette nell’articolo di Elena Maestrini che apre oggi “Elbareport” siano state pronunciate da un dirigente scolastico. Faccio poi molta fatica a capire il senso di quelle parole. “Abbiamo avuto prime numerose, difficili”: e allora? La scuola non era preparata a avere “prime numerose, difficili”? Quando capita un’eventualità del genere si fa in modo che la seconda sia “meno numerosa” e quindi meno difficile, bocciando un numero congruo di alunni? Cioè facendo in modo che siano più numerosi dei bocciati in seconda, cosicché la somma finale dia una classe “meno numerosa” e quindi “facile”? E la nuova prima che eredita tutti i bocciati dalla precedente non sarà ancora numerosa e quindi difficile? Oppure avremo trovato il modo per strappare una sezione in più e fare la scuola ancora più grande? “L’avevo detto anche al Collegio dei docenti che quest’anno c’era una sorta di deriva dei ragazzi, che non prendevano la scuola troppo sul serio”. Cosa vuol dire? Che per una congiunzione astrale “quest’anno c’era una sorta di deriva dei ragazzi”? E cosa è questa “deriva”? Se i ragazzi “non prendevano troppo sul serio la scuola” dipendeva dal fatto che era una mandata venuta male, una serie sbagliata di pezzi che andavano inesorabilmente sostituiti? “Adesso l’ammissione agli esami di terza è obbligatoria, per questo il conto finale si fa solo dopo che è stato sostenuto l’esame”. Si è domandato il dirigente per quale motivo “adesso l’ammissione agli esami di terza è obbligatoria”? Forse il legislatore ha stabilito questa norma per rimandare “il conto finale” a dopo l’esame, così l’effetto sorpresa è migliore? “Respingere soprattutto nelle prime significa dare una possibilità a questi ragazzi di riprendersi durante tutti gli anni che hanno davanti”. Ma che senso ha un’affermazione del genere? Significa forse che se la scuola segue i processi di maturazione degli allievi con continuità, individuando i problemi e avviandoli a soluzione senza interruzioni, reca loro un danno? Ma dove si trovano nella letteratura psicopedagogica queste indicazioni? Perfino la legge promossa dal ministro Moratti –Legge 53/2003, art. 2 comma f– divide il triennio della scuola secondaria di primo grado in un biennio più un monoennio, indicando Obiettivi Specifici di Apprendimento per il primo biennio (prima e seconda insieme) e poi per la terza –implicitamente escludendo ogni significato formativo per la bocciatura nella prima classe–. Se le indicazioni del dirigente avessero un qualche fondamento, poi, sarebbero applicabili a tutti gli anni, non solo alla prima media, inducendo alla conclusione che la bocciatura costituisce la migliore formazione. “Scuola dell’obbligo significa obbligo della frequenza e non della promozione a tutti i costi”. Non è vero. Scuola dell’obbligo significa proprio obbligo per la scuola di operare la “promozione” a tutti i costi: il che non ha nulla a che vedere con la valutazione del profitto e del comportamento, che è uno strumento di programmazione didattica e di intervento magari individualizzato (e che può prevedere anche il mantenimento di un alunno nella stessa classe frequentata l’anno prima, se ciò è ritenuto didatticamente funzionale, dopo aver messo in opera un progetto d’intervento specifico, comprensivo di verifiche che devono restare agli atti, e ottemperando alle precise procedure previste). La “promozione a tutti i costi” ha invece a che vedere con una norma fondamentale stabilita dalla Costituzione della Repubblica all’art. 3: “E’ compito della Repubblica [e quindi anche delle scuole della Repubblica] rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. In che modo la bocciatura provvede a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”? In che modo la bocciatura favorisce il pieno sviluppo della persona umana dei futuri cittadini lavoratori? Il ritardo di un anno nella tabella di marcia di una ragazzo avrebbe dunque da solo l’effetto taumaturgico di favorirne lo sviluppo? La scuola deve semplicemente assistere al compimento “naturale” del processo di maturazione, aspettare che avvenga? In questo modo la scuola “promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica” (Art. 9 Cost.)? La scuola dell’obbligo è obbligatoria perché è lo strumento che la Repubblica ha scelto per “promuovere” i futuri cittadini: è un diritto dei cittadini, tanto è vero che è definita “obbligatoria e gratuita” (Art. 34 Cost.) e la gratuità è inequivocabilmente un dovere che la Repubblica si assume, come appunto l’obbligatorietà che le è collegata. La bocciatura, prima di far vibrare di sdegno don Milani, aveva fatto vibrare l’intelligenza e la volontà dei Padri Costituenti: e lo sdegno di Milani derivava dal vedere disattesi quei principi fondamentali della vita della nostra Nazione. “Io penso che la bocciatura sia il male minore, rispetto ad una promozione a tutti i costi, che porterebbe il ragazzo a pensare che sia tutto permesso. Che il rispetto delle regole non vale. In questi casi sì che si creerebbe un adulto irresponsabile”. Il rispetto delle regole? Ma questo viene “ex consequentia” se la scuola è capace di “promuovere”, se cioè riesce a coinvolgere gli alunni nel processo educativo e formativo che li riguarda, a far capire il senso di ciò che sta facendo, a dare un senso alla loro partecipazione. Cominciando da quelli per i quali il coinvolgimento è più difficile, e che dunque hanno più necessità di attenzione. Ma se li “respinge”, per prima viene meno alle regole, che la vogliono educatrice e formatrice e non premiatrice e punitrice; e diventa essa stessa pessimo esempio. “E’ chiaro che noi abbiamo tutta una serie di progetti che portano sia nuove competenze, sia nuovi modi di lavorare, anche per chi non si adatta ai metodi più classici. Io credo, e mi auguro, che gli insegnanti abbiano messo in campo tutte le loro capacità”. Non è sufficiente “credere” e “augurarsi”: bisogna che sia accertato. Se lo avessero fatto i risultati sarebbero stati certamente diversi. E’ noto e apprezzabile l’attivismo della media di Portoferraio; ma se questi sono gli esiti verrebbe voglia di dire che sarebbe meglio utilizzare le risorse pubbliche dove si hanno migliori garanzie. Se con “tutta la serie di progetti” si perde per la strada il 6% degli alunni affidati alla scuola, forse è meglio che si concentrino le risorse per formare gli insegnanti ad affrontare le classi “numerose e difficili”. Ma fortunatamente la scuola è altro. La scuola è il luogo della speranza per la società, come dice la Costituzione. Di questo sarebbe necessario che tutti prendessero atto, dai governanti ai cittadini genitori, agli allievi futuri cittadini, agli insegnanti. Gli insegnanti. La parte più preparata della società, alla quale è affidato il compito più alto e più delicato, disconosciuta nel suo valore, nel suo lavoro, anche nella sua dignità: contestata –ora sembra di moda– nella propria professionalità da uno spesso malinteso senso di partecipazione dei genitori, che credono di recuperare –nell’ergersi a paladini dei figli– la disattenzione nei loro confronti derivata dagli impegni quotidiani. La parte più colta della società umiliata nel riconoscimento economico del valore del proprio lavoro; sostanzialmente impedita di curare come desiderato e comunque dovuto la propria cultura e la propria professionalità; costretta –specie nel caso delle isole– a dei “tour de force” micidiali: gli insegnanti hanno compiuto finora una lunga resistenza, e ora rischiano la stanchezza. E’ indispensabile che subito la società civile prenda atto della necessità di salvaguardare questa preziosa e insostituibile risorsa, prima che vada dispersa o che cada nell’abisso della frustrazione, rinunciando all’“auctoritas” che le viene dalla professione che esercita per rifugiarsi nella squallida rivincita dell’autoritarismo; rinunciando alla grazia della propria vocazione di “promotrice” per porre mano alla sterile arma della “potestas” di arbitrato. Chi riesce a mantenersi fedele a quella vocazione realizza l’alta funzione civile delineata dalla Costituzione, e deve veder riconosciuta la qualità della sua professione. Per coloro che accettano la “reductio” a arbitri delle “derive” generazionali, non c’è che da aspettare che l’anagrafe compia il suo corso con l’età della pensione. Le dimissioni sarebbero più dignitose, ma alla dignità forse hanno già rinunciato da tempo.
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Luigi totaro