“Nessuno si deve permettere di suggerire al Papa cosa deve dire”, tuonava l’altro giorno l’“Osservatore Romano”. “Il Papa è un’autorità morale e ha diritto di intervenire in questioni che riguardano la morale”; “la Chiesa ha il diritto e il dovere di insegnare a tutti a proposito di rilevanti problemi di carattere morale”, ecc. ecc. Queste e mille altre consimili osservazioni ci capita di udire in questi giorni. E non solo dall’ipocrisia consueta di coloro che tutelano la famiglia come valore assoluto, pur avendone due o tre ufficiali (Berlusconi, Casini, Santanché) e chi sa quante altre meno ufficiali (chi sa quanti). Taciamo degli altri paladini appartenenti alla Dependence delle Libertà, coi loro folcloristici matrimoni di rito celtico e divorzi di rito romano; ma anche dalla pavida retorica della sinistra di Stato (Napolitano) e di quella neocentrista “teodem”. Non una voce che si sia levata a dire, come il bimbo della favola, “il Papa è nudo”. Proviamo a farlo noi, ben consapevoli che l’argomento è di una gravità degna di ben altra discussione che quella che si può fare nelle ‘lettere al direttore’ di un giornale. Ma se fosse un seme capace di far germinare davvero un serio dibattito potremmo dirci assai soddisfatti. La macroscopica autoreferenzialità dei proclami ecclesiastici ci spingerebbe a un gioco di contestazione punto per punto che potrebbe risultare divertente, ma sarebbe sterile: verrebbe infatti voglia di rispondere all’“Osservatore” come da bimbi si rispondeva nelle scaramucce di provocazione (“perché, se io mi permetto di suggerire al Papa quello che deve dire, te che mi fai?). Ma lasciamo perdere. Invece l’asserzione secondo la quale il Papa è un’autorità morale, è più interessante. Perché la questione è proponibile in due aspetti: o Joseph Razinger è capace di dire parole che vengono percepite come autorevoli da chi lo ascolta, e in questo modo si conquista per così dire la qualifica di autorità morale; ma lo sarà allo stesso modo di Mandela, o don Ciotti, o Grosmann o Ben Jallun, o Gino Strada, o Pamuk, o chi altro si vuole (e per fortuna non sono pochi). O è un’autorità morale in quanto papa; ma questo può interessare solo coloro che “riconoscono l’autorità della Chiesa” come ha detto oggi il cardinale Ruini. In questo caso, infatti, la sua parola può essere più o meno cogente per chi si riconosce nella Chiesa Cattolica Romana; nel primo caso può essere più o meno persuasiva, ma cogente no davvero. Il problema, quindi, non è a nostro avviso quello dell’ingerenza della Chiesa nelle questioni dello Stato, ma quello della sua “incapacità giuridica” di costituirsi come autorità morale: naturalmente il Papa può dire quello che vuole (la Costituzione garantisce questo diritto anche all’Assessore); ma è una mistificazione dire che le sue parole rappresentano un principio di autorità morale, senza ricordare che lo rappresentano allo stesso modo anche le parole del Dalai Lama, o del Gran Muftì, dell’arcivescovo di Canterbury o del Gran Rabbino, o dei vari Ayatollah, Imam, Pastori evangelici, arcivescovi Ortodossi, Are Krishna e quant’altro, per restare nel campo delle religioni. Il Presidente della Repubblica ha voluto ricordare il debito di attenzione che si deve avere per una grande comunità religiosa come la Chiesa Cattolica Romana in questioni che riguardano l’organizzazione della Comunità nazionale. Poteva farne a meno, come ha evitato, opportunamente di richiamare la necessità che la Chiesa e il Papa siano ugualmente attenti alla carta fondamentale di quella Comunità, che stabilisce l’uguaglianza di diritti e di doveri di tutti i cittadini, e quindi per esempio il diritto delle donne ad accedere al sacerdozio e all’episcopato, il diritto dei chierici ad avere una propria famiglia quando lo desiderino (visto che il celibato dei preti arriva molto tardi nella tradizione della Chiesa Romana, e non ha mai cessato di essere questione controversa), ecc.: Eppure questo sarebbe stato l’equivalente degli odierni interventi della Chiesa Cattolica. Ma la Costituzione dice che “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” (art. 7). E sì che la rappresentatività democratica del Presidente della Repubblica ha un fondamento giuridico assai ampio. Il papa invece esercita all’interno della propria comunità un potere che gli deriva da un’investitura di poco più di cento elettori (i cardinali) nominati a loro volta da un altro papa, con una procedura fondata esclusivamente su decretazioni papali (il decreto “In nomine Domini” di Niccolò II del 1059) o conciliari (costituzione “Pastor aeternus” del Concilio Vaticano I del 1870), le quali rinviano a loro volta all’imperscrutabile disegno divino trasmesso dallo Spirito Santo. Dal punto di vista del diritto costituzionale comparato ci sembra un fondamento francamente debole. E poi, nello specifico, in quale testo sacro della religione cristiana si trova l’affermazione che il Matrimonio, arrivato a essere un sacramento solo dopo il XII secolo, è divinamente costituito come struttura fondamentale della società umana? E ancora, chi ha detto che la legge sulle convivenze di fatto (DICO) è una “questione morale”? Altrimenti è una questione morale anche il dettato costituzionale dell’art. 29: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Se così fosse dovrebbero rinviarsi alla competenza giuridica dei tribunali della Chiesa tutte le questioni riguardanti la famiglia, cioè tutte le questioni riguardanti il nucleo fondamentale (come si ripete continuamente in questi giorni) di tutta la società. Ma questo è un delirio da medievite acuta: Adriano IV e Federico Barbarossa, Chiesa e Impero, potere spirituale contro potere politico (con la Lega lombarda alleata del papa: con la differenza che allora papa e Lega rappresentavano il nuovo…). Ecco alcuni esempi di questioni rilevanti per un dibattito. Naturalmente non si vuole qui discutere (noi, poi) sulla natura e sul fondamento della religione della Chiesa Cattolica Romana, che pure è ricca di motivi importantissimi di riflessione anche per coloro che non vi si riconoscono. Ma nel momento in cui l’Istituzione Chiesa Romana rivendica il diritto di intervenire facendo sentire la sua voce nella dinamica delle decisioni parlamentari dell’Istituzione Stato Italiano destinate a regolamentare la vita associata dei cittadini, non sarebbe il caso che qualcuno domandasse alla Chiesa Romana di presentare le sue credenziali giuridiche invece del consueto facile rinvio autoreferenziale: “Posso parlare con autorità di questioni attinenti alla organizzazione sociale perché questa autorità risiede nella natura della Chiesa. Lo affermo in nome dell’autorità che possiedo”. In ogni caso sarà bene che qualche Istituzione dello Stato cominci a spiegare alle cinquecentomila “coppie di fatto” (tante, secondo l’ISTAT, ne esistono in Italia) che sono solo dei poveri peccatori senza diritto alcuno e destinati alla dannazione eterna; ma che, se si pentono e buttano via figli e progetti, potranno rientrare nelle grazie del Papa e del cardinal Ruini già pronti ad ammazzare il vitello grasso.
dico insostenibile