I ragazzi dell’Isis di Portoferraio avranno modo di vedere la banchina ferroviaria di Auschwitz: rimarrà loro negli occhi, nel cuore e nello stomaco; Primo Levi la vede alla fine del mese di febbraio del 1944 dopo un viaggio durato diversi giorni su un treno bestiame partito dal campo di raccolta di Fossoli e la racconta nel primo capitolo”il viaggio” del suo libro più famoso “Se questo è un uomo”. Oggi è la Giornata della Memoria; ci vogliono poche decine di secondi a leggere questo breve brano, ma penso che rimanga nei nostri occhi, nel nostro cuore e nei nostri stomaci finché avremo occhi, cuori e stomaci. G.P. …..Venne ad un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con il fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre, ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce. Una decina si SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e , a voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. “Quanti anni hai? Sano o malato?” e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni. Tutto era silenzioso come un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero “bagagli dopo”, qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero “dopo di nuovo insieme”;molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero “bene bene, stare con figlio”. Sempre con la pacata indifferenza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno: ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un sol colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno. In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente: oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio che 96 uomini e 29 donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di 500, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri. Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava alla morte. Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli: quasi nessuno ebbe modo di salutarli: li vedemmo un po’ come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla. ……
shoa baracca