“E ora cadiamo dalle nuvole, sgraniamo gli occhi e sorpresissimi ci domandiamo: ma come è mai possibile che nelle scuole si moltiplichino le violenze e i soprusi, come diavolo è accaduto che i nostri adolescenti, che solo dieci minuti fa erano ancora bambinetti ingenui, siano diventati così aggressivi e insensibili? Non facciamo i finti tonti, vi prego, e non gettiamo sulle spalle curve della scuola anche questa colpa. Sono vent’anni almeno che l’immaginario della nostra società si struttura attorno alla violenza, al denaro, al cinismo, alla brutalità, sono vent’anni almeno che gli insegnanti si trovano ad affrontare ragazzi ipernutriti da un cibo avariato che avvelena la mente, eccita a dismisura i desideri, accelera i tempi fino alla frenesia, cancella ogni pazienza ed esalta sempre e comunque una trasgressione senza scopi. È questa la direzione in cui procede la nostra cultura, almeno quella più popolare, quella tenuta sotto controllo dall’industria del consumo. Bisogna sfondarsi, stravolgersi, scalciare a vuoto, e poi accasciarsi con i vestiti giusti su qualche divano o su una panchina di un centro commerciale, senza pensare a niente. E non dimentichiamo le centinaia di film horror bevuti dagli occhi teneri di ragazzini alti un metro e venti, i contenuti e le forme di una televisione dove nulla deve mai affaticare la mente ma solo elettrizzarla, nulla deve mai invitare a un pensiero più complesso, dove tutto rotola a cento all’ora tra bellocce in mutande e ragazzotti gelatinati e semianalfabeti, dove ogni minuto c’è qualcuno che ti invita a comprare qualcosa. Insomma, a quindici anni nella testa di un adolescente, come nella gola di un’oca, è già stata rovesciata una quantità spaventosa di schifezze. E dall’altra parte del fosso c’è la scuola, lavagne nere e gessetti, vecchi banchi allineati, professori vestiti così così, che arrivano in autobus o su macchine mezze scassate, e che assegnano compiti su cui sudare, che ripetono fino alla nausea che la vita è dura, che bisogna studiare, concentrarsi, perché nulla ci viene regalato, perché anche le passioni prevedono sacrifici, costanza, tempi lunghi. Sono due mondi che inevitabilmente entrano in collisione, e non è difficile intuire qual è il vaso di coccio e quale il vaso di ferro”. Questa lunghissima –mi scuso– citazione da una straordinaria riflessione di Marco Lodoli (insegnante in un Istituto superiore della periferia romana, e scrittore chiaro e appassionante), pubblicata su “Repubblica”, offre un contributo fondamentale a rimettere le cose a posto nel dibattito che a periodi alterni si apre e si richiude sul ruolo della scuola nella nostra società. La generazione cui appartengo ha profuso ogni impegno per avvicinare la scuola alla cittadinanza, per coinvolgere i genitori e gli studenti nella gestione della formazione dei giovani, per sottolineare la natura di ‘servizio’ dell’istruzione. La legislazione ha accolto quelle istanze, e ha creato gli strumenti di partecipazione; ma col trascorrere degli anni l’istanza di partecipazione ha lasciato il posto alla delega totale in campo educativo: i genitori mandano i figli a scuola, e poi pensi la scuola a restituirli formati ed educati. Fuori della scuola ognuno pensa per sé. Se i ragazzi “vanno male”, o è colpa loro –“sono svolgliati”– o degli insegnanti –“non li stimolano a sufficienza”–. A nessuno interessa il fatto che l’impegno conoscitivo e formativo ha bisogno di motivazioni, e che queste sono immediatamente legate ai modelli di esistenza che i ragazzi hanno d’intorno. A nessuno interessa la contraddizione profonda fra un presente “dove tutto rotola a cento all’ora tra bellocce in mutande e ragazzotti gelatinati e semianalfabeti, dove ogni minuto c’è qualcuno che ti invita a comprare qualcosa”, e il richiamo al progetto per il futuro, rivolto da “professori vestiti così così … che assegnano compiti su cui sudare, che ripetono fino alla nausea che la vita è dura, che bisogna studiare, concentrarsi, perché nulla ci viene regalato, perché anche le passioni prevedono sacrifici, costanza, tempi lunghi”. Così esplode la contraddizione: “La scuola non può non apparire agli occhi dello studente stravolto che come una perdita di tempo, un posto lento, dove si imparano cose inutili, che non aiutano affatto a tenere sempre viva e zampillante l’adrenalina. La scuola sembra il contrario della bella vita. Il bullismo, ma sarebbe meglio chiamarlo carognismo, nasce in questo contesto. L’adolescente non tollera la sua età, non può accettare di restare immerso nelle lunghe stagioni dell’apprendistato, nella vaghezza di un tempo dove tutto accade piano piano: vuole dimostrare agli altri ma soprattutto a se stesso che la sua volontà di potenza, accuratamente fomentata dal mondo, non si ferma davanti a nulla, figuriamoci davanti alla compassione. Così umilia, perseguita, picchia il compagno più debole, ancora incastrato nella sua naturale fragilità, così calpesta il compagno handicappato, perché quella debolezza non trova alcuno spazio nel suo ordine di valori. Così se ne frega dei rimproveri dell’insegnante, un poveraccio che non andrà mai in televisione, che obbedisce a una morale antica, ridicola”. Quei ragazzi non sono però il prodotto della scuola, quanto piuttosto il prodotto del rifiuto della scuola: non da parte loro, ma da parte di una società che ha perduto il controllo della convivenza e che ha assunto come metodo comportamentale il “bellum omnium contra omnes”, la guerra di tutti contro tutti di cui parlava Thomas Hobbes nel ‘600. Se tutto è mercato, il valore è dato dalla capacità di imporsi, non da quella di governare la realtà. Anche se poi, naturalmente, ciascuno resta schiacciato dalla superiorità di chi ha di più e conta di più: e allora non resta che imporsi, con la stessa logica, a chi ha meno e conta di meno. “Si chiede alla scuola di aggiornare i programmi, di togliersi le ragnatele di dosso e correre al ritmo del nostro tempo competitivo e sempre nuovo. Ma la scuola non può tenere il passo della cultura dominante, è una gara persa in partenza, una gara falsata”, prosegue Lodoli. Di più, è una gara sbagliata: l’importante riflessione sulla “legalità” che è iniziata nella nostra isola e sulle colonne virtuali di questo giornale va progressivamente mostrando come la “cultura dominante” conduce verso la distruzione, e da ultimo verso l’autodistruzione.
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