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Controcopertina: La mafia comincia nella testa. Di tutti

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : domenica, 12 novembre 2006

I tre interventi di ieri su “Elbareport” inducono a una prima conclusione: il tema della legalità è finalmente approdato alla consapevolezza condivisa di una parte importante della società elbana, quella che ne costituisce la ricchezza per la capacità di impegno intellettuale, di elaborazione culturale e di stimolo all’analisi e alla riflessione –i dodici firmatari dell’appello–, e quella che ha la capacità di organizzazione del consenso politico e di mobilitazione della cittadinanza (i DS); del Direttore del nostro giornale non c’è bisogno di dire. Le considerazioni svolte negli interventi sono tutte condivisibili e da me condivise: dal richiamo al superamento della frammentazione amministrativa, all’attenzione per le problematiche locali dei giovani, degli imprenditori, delle forze sociali, per cercare di uscire dall’emergenza del “correre ai ripari”, e intervenire preventivamente, quando è ancora possibile e sicuramente meno costoso sotto tanti profili. I suggerimenti sono ponderati, e puntano a un nodo cruciale: il passaggio dalla dispersione localistica alla considerazione dell’intero territorio isolano come “unità complessa” (avrei detto “sistema”, ma non voglio indurre in tentazione per facili e inopportuni giochi di parole) da progettare e gestire nell’insieme. Credo anch’io che, sotto il profilo della rilevanza penale, l’Elba sia ancora lontana dall’emergenza malavitosa; ma chi nega la presenza del pericolo che questa si possa sviluppare è davvero imprudente. O peggio. Nelle regioni dove la malavita organizzata domina (poco contrastata), l’affermazione più perentoria che capita di sentire con allarmante frequenza è che la mafia non esiste, la camorra, la ‘ndrangheta, la Sacra corona e varie sono invenzioni; perché ormai non la si percepisce come altro dall’ordinario, dal normale; perché ormai ‘appartiene’ a quelle comunità, anzi è talmente al loro interno che i più non riescono a distinguersene. E’ “‘o sistema”. Per questo sono convinto che, senza perdere di vista tutte le soluzioni praticabili da subito, grandi o piccole che siano, rapide o necessitanti di tempi lunghi, è tuttavia necessario riflettere attentamente su quanto richiamato dal Direttore: qualunque intervento “non può prescindere da una maturazione culturale dei suoi abitanti, un processo virtuoso da costruire nel tempo e progressivamente”. Perché il pericolo maggiore che la nostra società corre è coabitare con la cultura di mafia pensando che riguardi altri da noi, e non possa contaminarci –come le grandi piaghe della storia, dalle pestilenze descritte dal Boccaccio e dal Manzoni, all’AIDS dei nostri giorni–. E invece la mafia-organizzazione, la mafia-prassi malavitosa, interviene là dove già il terreno è stato preparato dal lento insinuarsi della mafia-cultura: che è l’idea di fare da sé le proprie leggi o di applicare con criteri personali le leggi esistenti (dai contributi fiscali al rispetto del diritto del lavoro, al rispetto delle norme della concorrenza, alla violenza personale o sociale, e via dicendo), di considerare il proprio interesse come il valore prioritario, e l’interesse generale come una sua indebita limitazione. La mafia-cultura ha gradualmente ma inesorabilmente imposto il proprio valore assoluto, il proprio “totem”, che è l’accumulazione del denaro come valore in sé e non per l’uso che se ne può fare. Il denaro, inventato come controvalore degli oggetti per il superamento del baratto, ha finito per essere sempre meno controvalore (ormai lo è solo virtualmente, poiché la cartamoneta ha solo un valore simbolico), e sempre più valore assoluto, e gli oggetti ne sono divenuti il controvalore: il possesso degli oggetti “mostra” quanto denaro si possiede, e ‘questo’ dà la misura del “nostro” valore. Una cultura di questo genere allontana inesorabilmente la considerazione del valore dell’esistenza, della relazione interpersonale, del sentire, del capire, dell’immaginare, del creare; allontana ogni altro desiderio, ogni tensione, ogni regola; tutto diviene funzione dell’accumulo di denaro, senza rispetto per nessuna altra esigenza: senza attenzione all’uso che si fa delle risorse (dal territorio all’energia), senza considerazione per le generazioni future, senza altra dimensione che l’immediato e l’utile che se ne può direttamente trarre per accumulare denaro. I modelli che una società adulta contaminata dalla mafia-cultura (non ancora, dunque, dalla mafia-prassi) trasmette ai suoi giovani sono la causa prima dell’abbandono scolastico, della dispersione, del “disagio di tanti ragazzi ai quali la ‘bassa stagione’ riserva soltanto solitudine”, come dice il comunicato dei DS: poiché la ricerca della ricchezza in sé non può riempire la vita di un giovane se non come sequenza di desideri di oggetti che quella ricchezza rendano manifesta, ma per ciò stesso estraniata dalla sua vita, ‘alienata’ –come si diceva una volta–. Il mercato è da sempre stato strumento della vita associata; se ne diventa fine ultimo, la vita di ciascuno finisce per essere oggetto di mercato, e così la vita di ogni altro; e tutte possono essere comprate e vendute in uno stravolgimento assoluto di ogni senso. Continuiamo dunque a proporre con forza il Comune unico, la pianificazione del territorio, la sinergia nell’uso delle risorse. Ma non cadiamo nell’errore di pensare che le nostre comunità isolane siano d’accordo a rinunciare alle loro otto amministrazioni, e non per vecchio campanilismo ma perché i singoli cittadini elettori hanno una capacità contrattuale infinitamente maggiore nello stato presente. Il pericolo della devastazione del territorio non è generato dall’incompetenza o dalla meschinità degli amministratori, quanto dalla colpevole loro disponibilità a soddisfare la richiesta continua degli amministrati di trarre il massimo lucro possibile e immediato dai beni che la sorte ha affidato loro. La corruzione è possibile perché vi sono corrompibili e corruttori, e il fine di entrambi è sempre lo stesso: accumulare denaro. Non importa se poi l’esistenza che si conduce è sostanzialmente misera, fatta di tante cose e di poca vita: Provenzano ha vissuto decenni come un barbone, con quantità misurate di denaro a disposizione (ma direi più correttamente “a disposizione di quantità smisurate di denaro”). Poca vita: poca cultura, poca scuola, poco ragionamento, poco amore. Cerchiamo pure di realizzare tutti i passi possibili, da subito. Ma la resistenza alla mafia, all’illegalità, alla violenza comincia nella testa. Di tutti.


luigi totaro

luigi totaro