A Melpignano non si usano assorbenti interni Caro Direttore, Melpignano di Puglia sulla carta stradale De Agostini non c’è. Grosso modo sapevamo che si trovava tra Lecce e santa Maria di Leuca, sulla superstrada abbiamo visto i cartelli un chilometro prima dell’uscita. E’ un paesino di duemila abitanti, ma anche loro non ci sono. Qualcuno è emigrato, altri sono in città, qualcuno esce la sera sulla soglia di casa a vendere fichi d’india, dopo che il sole salentino ha smesso di cuocere le case di pietra gialla. Ha tre o quattro monumenti barocchi sfarinati dal vento, ti avvicini, li tocchi e ne cade un pezzetto. Una semimiseria polverosa e antica, lontana dal mare, dove non si trovano gli assorbenti interni “perché qui non li usa nessuno”. Gli abitanti, quando spuntano da dietro le case, sono gentilissimi, ospitali e inflessibili: quando si è preso un accordo non è possibile rimangiarsi nemmeno una parola. A Melpignano non ci sono alberghi e ti ospitano a casa loro, si fa colazione vicino all’orto, all’ombra dei cactus e dei panni stesi. La sera in cui arrivano trentasei treni speciali e centomila tarantolati Poi arriva “quella sera”, quella del concertone finale della notte della Taranta. Nella inesistente Melpignano arrivano trentasei treni speciali con il servizio di autobus- navetta, centomila persone si fermano davanti alle rovine del convento degli Agostiniani, oltrepassano la piazza, invadono i campi di stoppie che delimitano il paesino e iniziano a ballare. Sono i “pizzicati” quelli che vogliono guarire al suono dei tamburelli e delle fisarmoniche, tantissimi giovani, ma anche adulti e anziani. Il concerto finale, che conclude le serate itineranti lungo tutti i paesini della Grecìa, inizia alle nove di sera e finisce alle quattro della mattina, ma per modo di dire, perché la festa vera è all’alba, quando si formano gruppi spontanei che ballano in cerchio, su un tappeto di bottiglie vuote, o sui tetti, fino allo sfinimento. Quest’anno, per la nona edizione, l’orchestra popolare della Taranta era composta da 70 elementi, diretti da Ambrogio Sparagna, nel 2003 il direttore artistico fu Stuart Copeland. E’ una cosa grandiosa, che t’investe come un treno in corsa. I vari ospiti, quest'anno Lucio Dalla, Carmen Consoli i Buena vista social Club, sono dei dettagli, delle comparse molto discrete. E’ un viaggio nel tempo, si torna indietro fino al cordone ombelicale, si balla come serpenti a sonagli incantati. Caro direttore, ma che ne sapevo io del morso della tarantola, che nella credenza popolare colpiva soprattutto le donne, oppresse più che mai, e che si guariva soltanto ballando per tre giorni. Eppure la mia diagnosi mi è apparsa subito chiara: un morso da qualche parte dovevo pur avercelo. Il vigile urbano che chiamò alcuni amici a suonare A Melpignano nessuno si era mai sognato di chiamare tutta questa gente. Soltanto un vigile urbano, qualche anno fa, per la notte di san Lorenzo, invitò alcuni suoi amici a suonare l’antichissima musica della Taranta. Dalle finestre delle case gialle fu unanime la condanna “di tutti questi capelloni che ballavano e bevevano birra”. L’anno dopo la gente triplicò, poi ai salentini è scoppiata in mano la notte della Taranta. Dietro ci sono studi rigorosi, c’è il viaggio di oltre cinquant’anni fa dell’etnografo Ernesto De Martino, c’è un recupero filologico dei testi antichi, ci sono i canti popolari che parlano di lavoro e fatica, banalizzando molto (mi perdonino gli etnomusicologi) si potrebbe dire che si tratta di blues salentino, suonato a mille giri e cantato con le voci isteriche ed esasperate delle donne del sud. C’è il meraviglioso lavoro degli enti locali della Grecìa, un’isola linguistica del Salento, e alcune frasi di Luigino Sergio, presidente dell’Unione dei 10 Comuni, che mi sono rimaste dentro durante tutto il viaggio: Il racconto comune “Cercavamo una Storia, le tracce di un passato, forse povero, disilluso, pieno di fatica ma anche di orgoglio. Cercavamo un racconto, perché ritenevamo di avere una particolarità, una differenza, una qualità di cui far partecipi gli altri intorno. La lingua ce lo diceva, con i suoi suoni, il canto antico fatto d’occhi e di gesti millenari, sedimentati e ancora così vivi. E, il racconto della Grecìa, col crescere di una volontà che nell’azione culturale ha trovato le leve necessarie per rafforzarsi e rendersi visibile, è divenuto musica”. La Linguella isola musicale d'Europa? Pizzicata, semiguarita e più consapevole sono tornata a casa. Ho visto i cartelli di “Elba isola musicale d’Europa”, anno decimo, e il veleno della tarantola mi ha obbligato a fare dei confronti. Prima di tutto ho cercato il “racconto comune” e non l’ho trovato, ho cercato la crescita e non l’ho vista, poi molto più modestamente ho cercato il programma dei concerti gli orari ed i prezzi, e non ho trovato neppure quelli. Faccio umile ammissione di totale ignoranza nei confronti della musica classica, sebbene mi ricordi che a Salisburgo sentii parlare di un certo Mozart che mi incuriosì, comprai dei cd, piansi per giorni sul Requiem. Certo che non ho nessuna voglia di mettermi a piangere per il festival elbano, ma, vede direttore, a me che a volte capita di insegnare letteratura, rimane “sto viziaccio” di cercare il racconto, comune oltretutto. E non lo trovo nel festival, né nella leggenda dell’Innamorata, né nelle maschere rinascimentali. Non mi fraintenda, non censuro, solo che mi trovo con delle parole sparse, e non mi ci raccapezzo, e non mi guariscono. Qual è la lingua comune dell’Arcipelago, quali sono le sue differenze che potrebbero perlomeno raccontarsi qualcosa tra di loro. Ammettiamo di non avere storia e di doverla ancora inventare? De Gregori che canta “La storia siamo noi” sarebbe un'umanista sfiatato, il suo (di lei, direttore) “Zuppe e stornelli” non ce lo consentirebbe. Un’operazione di marketing che cancellasse o mistificasse il passato sarebbe una cluster bomb. Dopo ci vorrebbero solo protesi in carbonio per la memoria spappolata.
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