Torna indietro

A Sciambere di "Cuba, que linda es Cuba!"

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : domenica, 27 agosto 2006

Un giornalista non dovrebbe mai parlare di casi personali perché rischia di perdere obiettività e di giudicare i fatti con poca serenità. Devo fare un’eccezione perché quello che sta accadendo a mia moglie è la prova della totale assenza di giustizia nel sistema politico cubano. Il teorema di una Cuba non democratica e soprattutto distante dalle regole più elementari di uno stato di diritto è di facile dimostrazione, ma in Italia esistono schiere di irriducibili castristi che non si arrendono di fronte all’evidenza. Come dice un mio amico cubano, i castristi vivono tutti all’estero e soprattutto non devono sopportare le angherie di un sistema politico aberrante. Veniamo ai fatti, la sola cosa che conta per un cronista. Ieri pomeriggio - 25 agosto 2006 - arriva una telefonata da Roma a turbare la tranquillità di un pomeriggio estivo. Risponde mia moglie. All’altro capo del filo c’è una voce femminile dal marcato accento caraibico. Si tratta di un’impiegata dell’ambasciata cubana, che prima si informa sulle sue generalità chiamandola compañera, cosa strana dalle nostre parti dove la parola compagno non viene usata neppure durante le Feste dell’Unità. “È arrivato un avviso urgente dall’Ufficio Emigrazione dell’Avana. Ti danno trenta giorni di tempo per presentarti nei nostri uffici dove avrai notizie precise sulla comunicazione e subito dopo dovrai andare a Cuba”. “Come mai?” chiede preoccupata mia moglie “Cosa è accaduto di grave?” “Ti hanno revocato il permesso di residenza all’estero”. “Dopo otto anni che vivo in Italia? Non comprendo…” “Per telefono non posso dirti di più. Devi presentarti in ambasciata”. “Sono incinta. Non posso affrontare un viaggio così lungo e non posso andare all’Avana in questa situazione. Se non potete dirmi niente per telefono me lo comunicherete per scritto” . “Posso solo dirti che dalla comunicazione risulta che sei attivamente politica contro il governo cubano. Se non ti presenti perdi automaticamente il permesso di residenza all’estero e passi nella categoria emigrante”. Per chi non è dentro alle stranezze di una dittatura che non concede nessun diritto ai suoi cittadini bisogna dire che essere qualificato come emigrante è la cosa peggiore che può accadere a un cubano che vive fuori dalla sua terra. L’emigrante viene considerato un gusano, come quelli che sono scappati a bordo di una zattera, un antisociale, un controrivoluzionario. Non ha più diritto di entrare a Cuba e se vuole farlo deve chiedere un permesso speciale all’ambasciata. Se il permesso viene concesso, può recarsi a Cuba per far visita ai familiari, ma non ha la certezza di tornare di nuovo all’estero. Va da sé che nessun emigrante entra a Cuba, perché corre il rischio di essere messo sotto torchio dalla polizia del regime e di finire nelle carceri di Fidel Castro. “Nel mio cuore mi sentivo già emigrante e avevo deciso di non tornare a Cuba. Mi spiace solo che questa situazione diventi una vostra imposizione. In ogni caso non mi presenterò. Fate quello che credete più opportuno. Per fortuna sono cittadina italiana”. Fine della comunicazione. Ho voluto scrivere questo pezzo per far capire a chi ancora covasse illusioni sulla bontà del socialismo reale cubano e sulle conquiste rivoluzionarie. La più grande conquista di un cittadino cubano è quella di non avere nessun diritto nei confronti della sua terra. Mia moglie non ha mai espresso pubblicamente opinioni contrarie al regime, non ha mai scritto articoli e rilasciato interviste sulla situazione cubana. Non ha mai fatto politica attiva. In definitiva è lei a pagare per i miei articoli, per i miei libri, per i romanzi di suo cugino Alejandro Torreguitart che mai come adesso non deve far vedere il suo volto e far conoscere la vera identità. Spero solo che tutto questo rappresenti un segnale di debolezza di un nuovo governo che ha perduto il grande carisma del suo leader maximo. Una vera Cuba libera è possibile. Gordiano Lupi (www.infol.it/lupi) Caro Gordiano le tue parole, quelle di tua moglie sono sale sulle ferite. Lo sono particolarmente per chi nella "rivoluzione cubana" ci aveva creduto al punto da leggere e ascoltare tutto il possibile, fino al punto di apprendere i rudimenti una lingua diversa dalla sua in una maniera curiosa, senza averla mai veramente studiata né praticata. Sono sale bruciante per chi credeva (e crede ancora) che socialismo e democrazia non siano antitetici, anzi che possano fondersi nella unica forma di libertà diversa da quella della jungla, per chi non stava dalla parte degli spioni CIA e dei gangster di cui si servivano, degli assassini prezzolati che erano sbarcati "En la ensenada de cochinos" (quando si dice i toponimi!), per chi credeva nel sogno di Ernesto Guevara, di Camillo Cienfuegos, di Fidel (quel Fidel, che aveva cacciato a calci nel culo il dittatore Batista e la sua corte di magnaccia e puttane da Cuba, quello del "..cessi la filosofia dello sfruttamento e cesserà la filosofia della guerra .." urlato all'ONU sul muso degli USA che tenevano sotto il loro tallone di ferro economico e militare prima di di quelli di ogni altra parte del mondo i poveri del mondo latino, quel Fidel non il vecchio arido, il tristo figuro che ne resta). Vorrei esprimere a tua moglie tutta la mia solidarietà e l'unica cosa che mi viene di fare per sottolinearla è tentare, per i miei concittadini, la indegna traduzione "d'imbracciatura" di alcuni dei versi di una canzone popolare, così come li aveva stesi il poeta e patriota cubano, "el Apostol" Josè Martì nella sua "Guantamera", che i portoferraiesi hanno ascoltato purtroppo in una versione "accapponata" (da Casadei Caraibico) dal "Buena Vista Social Club" questa estate: Coltivo la rosa bianca in luglio come in gennaio per l'amico sincero che mi tende la sua mano franca E per il crudele che rende amaro il cuore che mi fa vivere non coltivo pruni né ortiche Coltivo la rosa bianca un pensiero profondo nasce dalle indicibili pene la schiavitù degli uomini è la grande pena del mondo


josè martì

josè martì