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A Sciambere: La storia di Macallè

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : sabato, 01 aprile 2006

Macallè qualcuno se lo ricorda ancora a Marciana Marina: un gigante con le idee di un bimbo di otto anni. Noi andavamo a vederlo spengere con una testata sola i quattro lampioni alti e curvi che facevano luce in piazza di sopra, o a spaccare in due le panchine di granito sollevandole di peso. Una forza della natura incapace di picchiare, che usciva sempre malconcio e sanguinante nelle risse di briachi. Era figliolo di Natalina e Ferruccio, un fascista che si tagliò due dita per non andare in guerra e famosissimo tra noi per le sue imprese di ciclista subacqueo: quando il tasso alcolico era giusto, si precipitava con la sua graziella scassata sul moletto e, dopo un tuffo matematico, cominciava a pedalare sul fondo, con la sigaretta accesa alla rovescia in bocca e riemergeva a più di cento metri di distanza. Per la marmaglia del moletto era un mito e una sfida alle leggi dell'universo, a volte faceva il morto a pancia in giù per così tanto tempo che i turisti spaventati venivano a chiederci di chiamare qualcuno per tirare quel cadavere fuori dall'acqua. Ferruccio era un bell'uomo, con baffi neri ed occhi chiari che il vino rendeva trasparenti, ed usò la sua spavalda bellezza per lavorare l'indispensabile e per fare tre figlioli con una donna che promise di sposare da un letto dell'ospedale vecchio di Portoferraio, proprio il giorno prima che la morte glielo impedisse. L'unico maschio era Macallè, che fu soprannominato così perchè nacque in un giorno del 1936 in cui l'esercito del re e Mussolini presero in una guerra da straccioni una città dell'Abissinia che ci aveva sanguinosamente sconfitti allo sfiorire dell'800. Ferruccio non se ne curò mai molto, lo affidò alla natura e ad una scuola svogliata che ai sottoproletari insegnava appena a leggere e scrivere, e lui non imparò neanche quello. Diventò un ragazzone riccioluto con due spalle da toro e un sorriso da neonato su una faccia da pirata e bazzicò sciapichelli e zaccarene e lavori da niente, scansato dalle donne e temuto dai mariti per la sua bellezza innocente e il suo fisico da torero. Ebbe sempre una fame insaziabile e una vita tribolata e non capendo la cattiveria fu scambiato per un pericolo quando la sua rabbia esplodeva repentina e animale, con la forza brutale di un petardo atomico. Poi arrivarono i turisti e il paese cominciò a non fabbricare più i diversi, a vergognarsene ed a nasconderli. Fu presa a scusa una bizza infantile, uno sconquasso da elefante e un'offesa a qualche persona perbene e Macallè fu spedito al manicomio di Volterra. In un'alba di tanti anni fa, i carabinieri lo tirarono fuori a forza e strepito dalle scale ripidissime di una casa del Cotone e lo portarono via. Tornò qualche volta alla Marina e per noi erano guai: faceva un frustino con un ramo flessibile di tamerice e chi veniva a scovare tra scogli ed anfratti, a distoglierci dalla pesca di ghiozzi, perchie e mostelle per accompagnarci a casa con scudisciate alle gambe nude fuori dai pantaloni minuscoli che i bimbi portavano fino alle scuole medie. Dovevamo studiare perchè non potevamo fare la sua fine, non gli riuscì nemmeno quel buon proponimento. Poi le visite di Macallè si diradarono, l'ultima volta che lo vidi a Marciana Marina me lo trovai davanti trent'anni fa, mentre baciavo una ragazza in una spiaggia nascosta, diventò rosso come i bimbi che non hanno mai conosciuto l'amore e ci chiese scusa mille volte, poi tornò indietro, scavalcando gli scogli dell'Omo come una capra, e scomparve per un pezzo dalla nostra vita. Si sposò in manicomio, che nel frattempo era diventato una casa di cura psichiatrica che gli era entrata dentro come un veleno, incupendo il suo sorriso da bambino ed offuscando il cervello. Si adattò e diventò matto davvero e quando lo andavamo a trovare era contento di vedere quei parenti estranei, quelle sorelle dimenticate e quei ragazzi sconosciuti che lo portavano al ristorante a mangiare la pasta al forno. Ha attraversato la vita guardando gli altri vivere, accontentandosi di niente e perdendo una gamba Qualche giorno fa Macallè è morto solo, nell' ex manicomio che gli ha fatto da casa, portandosi dietro una vita disperata, un pacchetto di sigarette un accendino e quattro euro per comprare un altro pacchetto in paradiso, dove le sigarette durano in eterno. Macallè si chiamava Oreste, era mio zio.


molo marciana marina

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