Quell’anno il Natale arrivò freddo e improvviso come una fucilata. Restammo per un mese incollati dalla tramontana alla vetrina del Bazar di Rosa, a spasimare per luccicanti pastori di plastica che non potemmo mai comprare e a mendicare tavolelli dai falegnami per costruire improbabili casette di una Betlemme immaginaria dove nascondere osti, oche, pastori e pecore. Portammo a casa un sacchetto di rena per costruire un angolo di deserto per i Re Magi ed il loro gigantesco e stinto cammello, riattaccammo il capo al bue con un po’ di colla e tirammo fuori Gesù bambino da un sacchetto pieno di paglia e una brigata di pastori che tenevamo a far compagnia ai topi di un buio sottoscala. Poi aspettammo il nostro babbo, per costruire sul ripiano di una madia sbeccata un presepio di montagne di erbino e un cielo di carta stellata e desiderio. Arrivò con l’antivigilia, la Vigilia, il Natale e Santo Stefano già festeggiati con una sbronza nebbiosa e volitiva. Teoricamente era un Comunista ateo, in realtà amava San Francesco e aveva una venerazione bambinesca per il presepio ed una superstiziosa paura di non poterlo fare. Era lui l’Architetto di montagne, uviali e stagni, il dispositore di case e grotte, l’appenditore di stelle, il nasconditore del nano che cacava e l’avvicinatore dei Re Magi . Noi facevamo da aiutanti preoccupati, mamma si teneva lontano, consapevole dei pericoli di quei giorni di brindisi e baldorie che riempivano bettole e strade di briachi che ritrovavano la via di casa non sempre con buone intenzioni. Stavolta il pellone era di quelli buoni, tranquillo come l’ovatta, la bocca legava le parole in uno scioglilingua scherzoso e le mani avevano attenti movimenti da lumaca. Ogni pastore era scelto con meticolosa attenzione, controllato, allineato e dimenticato. Ma le nostre risatine soffocate ed il darsi di gomito cessarono atterriti quanto il mi’ babbo cominciò a fare il Presepio mettendo pastori, pecore e Re Magi direttamente sul piano della madia, accanto ad una capanna di sughero raccattato sulla spiaggia, capimmo la tragedia solo quando staccò con il pollice calloso un orecchio all’asino e espose la culla al gelo. Poi ricoprì tutto con l’erbino verde e lungo che avevamo fatto in Val di Cappone e guarnì le montagne col muschio bianco e vaporoso come una meringa, strappato dagli scogli delle Coticchie. Ne venne fuori un prato da cui spuntavano le teste dei pastori e i tetti rossi d’acquerello degli scarti di legno trasformati nelle case di una Palestina che somigliava a Marciana Marina e Gaspare, Melchiorre e Baldassarre furono annegati in mezzo chilo di farina. La sacra capanna fu murata da una zolla verde e lucida, fermata dalla stella cometa d’argento come fosse una spilla tenuta da un arcangelo allibito nella sua tunica celeste. Da un pertugio un San Giuseppe terrorizzato ci chiedeva di essere liberato. Babbo guardò il Presepio soddisfatto e se ne andò a dormire senza cena. Ci gettammo sul presepio non appena sentimmo il primo russare e rimettemmo in sesto quello sproposito geologico, demmo ordine al caos e ripristinammo la tradizione, dissotterrammo i pastori e il nano sporcaccione, riattaccammo il cielo di carta e stendemmo la stagnola, recuperata da un uovo di pasqua e pacchetti di sigarette di lusso, per fare fossi e laghi, ci spargemmo minuscole anatre ed oche e ci portammo all’abbeverata un gregge di pecore di gesso e plastica . Quando si svegliò fu molto soddisfatto del suo lavoro ammirò quel Presepio, spiegandoci come aveva scelto di farlo e perché i personaggi erano proprio lì. Babbo Natale per noi non esisteva, non ci aveva mai portato un regalo, non si curava del sottoproletariato, molto meglio la Befana della Provincia che faceva sfilare i poveri all’asilo per consegnare regali che venivano demoliti in poche ore. Quindi prendemmo come un dono inaspettato l’annunciò che il pranzo di Natale lo avrebbero cucinato Babbo e il mi’ zio Lampo, che arrivò poco dopo seguito da una moglie perplessa che condivise apertamente con mamma ogni peggior presentimento culinario. Ci annunciarono un piatto spagnolo sopraffino e dalla sporta di paglia saltarono fuori, cavolo nero e coniglio, triglie e riso, totani, bietola, lumache e maiale. Infilarono tutto in una pentola e lo misero a cuocere lentamente sulla brace del camino acceso. Dopo un paio d’ore l’aria diventò irrespirabile, dalla pignatta si sprigionò un tanfo nauseabondo e le donne abbandonarono indignate le due stanze che ci facevano da casa. Solo noi restammo a guardare affascinati i due fratelli disperati tentare di assaggiare una melma nauseabonda che avrebbe dovuto diventare una paella. Non ce la fecero e sotterrarono la loro vergogna di cuochi maldestri, la pignatta ed il contenuto tossico nella vigna davanti a casa. Per noi fu un Natale bellissimo che culminò in una fine d’anno di grandine interminabile che si mescolò alle stoviglie gettate per le strade. Uscimmo a Capodanno in quella finta neve, e i bimbi erano gli unici padroni di quel grande presepe bianco e intirizzito, con il mare di piombo che ruggiva su un deserto di cristiani ed animali, a cercare tesori nelle robe vecchie tirate dalle finestre ed a fare pallate di ghiaccio contundenti, consapevoli delle botte che ci aspettavano a casa quando saremmo ritornati bagnati di acqua gelata e lividi di freddo e di colpi.
Grandinata a S.Piero