"E facendo il mio lavoro ho potuto constatare che l'isola d'Elba è una cosa a sé rispetto alla Provincia. Ed è un posto dove vi è scarsa simpatia per la legalità. Anche altrove, però la società civile deve vigilare sui corretti meccanismi socioeconomici. Un tessuto sociale è sano se la magistratura non è la sola a contrastare le condotte illegali". Questa è dunque l’affermazione del dott. Pennisi che ha suscitato tanto scalpore, fino a produrre un intervento del vicepresidente del Consiglio Regionale. Francamente non capisco. Si è levata una vibrata protesta per l’elbanità vilipesa, e subito un coro di difensori della sua purezza inquinata dai cattivi venuti da fuori. Tutto ciò mi pare francamente fuori luogo. Intanto la distinzione fra gli Elbani DOC e gli importati è semplicemente un non senso: anche in una prospettiva solo demografica, senza questi ultimi l’Elba sarebbe disabitata da parecchi secoli. Ma, Il che mi pare di tutta evidenza. E mi sembra confermato dalla ulteriore precisazione: “Le mie parole sugli elbani erano e sono uno stimolo per …andare in alto, per migliorare. Se c'è qualcosa che non va in una persona, in un gruppo o in un contesto sociale questa cosa va detta, perché in un contesto sociale ci sono anche i giovani, che sono il nostro futuro, e mentire ai giovani è mentire alla storia”. Questo non c’entra niente con l’interpretazione dell’avv. Cesarina Barghini, secondo la quale “la popolazione elbana viene disegnata come un covo di delinquenti”; e non mi pare configurare alcuna "generalizzazione", nel senso che l’Avvocato paventa, cioè “che quella che il magistrato definisce "scarsa simpatia per la legalità" dovesse considerarsi una caratteristica intrinseca del DNA degli elbani”: giacché una affermazione del genere non sarebbe solo inammissibile, ma anche stupida –specie per chi, come me, pensa che l’inclinazione a delinquere non sia nel DNA di nessuno–. Così l’invito da lei porto “a tutti i rappresentanti delle istituzioni locali, i sindaci in primo luogo, a prendere una decisa posizione per restituire alla nostra isola la dignità che merita” mi pare eccentrico rispetto al problema reale, che è piuttosto di riflettere su dove la nostra società sta andando, e di ritrovare nella nostra cultura e nella nostra storia il senso vero della nostra dignità. Che, come osserva il sindaco di Portoferraio, i molteplici casi giudiziari verificatisi negli ultimi anni abbiano “evidenziato una ‘questione legalità’ rapportabile al territorio dell'Isola d'Elba” mi pare cosa incontrovertibile: anzi, televisione e giornali ci dicono ogni giorno che essa è rapportabile all’intero territorio nazionale, dalla proba Padania allo sventurato Meridione, passando per Roma. Ma, come dice un proverbio, per tenere pulita la città ognuno deve spazzare davanti a casa sua. Mi è capitato, tempo addietro, di svolgere osservazioni in questo senso su “Elbareport”, e sono stato oggetto di rampogne come lo è oggi il dott. Pennisi. Gavassa e “A sciambere” di ieri mi confortano sul fatto che non avevo proprio sbagliato. Ma sulle terapie si deve stare attenti. Proprio il dott. Pennisi è stato criticato nei mesi scorsi per una sua presunta tendenza a essere incline agli arresti facili; e si è detto che c’è “chi ha tirato un sospiro di sollievo nell’apprendere la notizia che un magistrato così produttivo sia destinato ad altro incarico” –e non è difficile riconoscere fra questi gli attuali indignati difensori dell’elbanità ferita–, e “c'è al contrario chi sembra preso dalla "Sindrome dell'abbandono di Pennisi" e teme che sia vanificato un grande lavoro di indagine”. Mi è capitato di intervenire sulla questione degli “arresti facili”, per sostenere quanto con chiarezza dice lo stesso Magistrato –“Sono uno che si è occupato di cose per le quali era necessario farlo almeno secondo la mia interpretazione dei fatti e della legge. Se non mi fossi occupato di quelle cose non avrei fatto arresti...”–; me ne sono occupato anche quando il suo intervento non corrispondeva alla conoscenza che avevo dei fatti e delle persone. E non foss’altro che per questo trovo un po’ semplicistiche le richieste di dimissioni generalizzate, e anche –mi perdonerà il nostro Direttore– l’auspicio del suo citato intervento di ieri –“la prima cosa che debbono fare i Sindaci per difendere l'immagine dell'Elba è evitare di farsi iscrivere nel registro degli indagati”–. Il problema è invece complesso. La giustizia non è una mannaia, e chi la amministra non è un ‘giustiziere’. Esistono procedure, ed esiste anche chi utilizza le procedure per azioni che non sempre hanno a che fare con la giustizia. Quando i Padri Costituenti sancirono l’immunità parlamentare sapevano che durante il Fascismo ci si liberava degli avversari politici accusandoli di aver commesso reati che prevedevano l’arresto, e così si levavano di mezzo in attesa della celebrazione di processi che arrivavano poi quando arrivavano. Non siamo più in quella situazione, ma la tentazione di usare in piccolo lo stesso sistema permane, e la si è vista talvolta in atto durante l’epoca di “Tangentopoli”. La conseguenza è che non solo può accadere che gli accusati (e arrestati) risultino alla fine innocenti e difficilmente risarcibili; ma che la stessa azione della magistratura venga pericolosamente compromessa, con l’accusa appunto delle “manette facili”. E siccome è difficile fare le debite distinzioni se non ‘a posteriori’, si stigmatizza la Magistratura invece che chi tenta di servirsene per i propri scopi, per soccorrere la propria incapacità politica. Non intendo, per carità, proporre un’immunità di mandato per gli Amministratori comunali (spero anzi che non mi leggano i consulenti legali della Maggioranza governativa, se no lo fanno davvero); ma credo che la dignità dei cittadini e delle comunità cominci a essere difesa a partire dall’uso che essi sanno fare degli strumenti della democrazia. Compresa la ‘libertà di parola’. A questo proposito mi sia consentito un piccolo appunto al dott. Pennisi: che i magistrati siano cittadini come gli altri e abbiano tutti i diritti conseguenti è cosa pacifica. Mi piacerebbe che avessero una dose supplementare del senso di opportunità. La toga che indossano costituisce non solo il simbolo della funzione, ma anche l’elemento separatore fra la funzione e la persona, con la persona che viene in certo modo ‘coperta’ dalla funzione. Mi piacerebbe che i magistrati non lasciassero mai la toga, e facessero ascoltare la propria voce nei tribunali e nei luoghi della scienza giuridica. Può darsi che –col loro esempio– politici, avvocati, giornalisti e ‘uomini della strada’ smettano di voler fare i giudici.
luigi totaro