Il racconto è liberamente ispirato al diario di bordo di Georges Simenon durante una crociera nel Mediterraneo ("La Méditerranée en goélette", Ed.Le Castor Astral) nel 1934, a bordo del veliero Araldo. Dopo Genova e San Remo, la terza tappa è Cavo, un minuscolo paese dell’Isola d’Elba. Il punto di vista adottato nella narrazione è quello dello scrittore, che è colpito dalla povertà dignitosa della gente, dalla naturale solidarietà e dalla loro "saggezza biblica", agli antipodi della modernità e della storia. L’ottica di Simenon è molto soggettiva e parziale: l’economia elbana, basata sull’attività estrattiva nelle miniere di ferro e sugli impianti siderurgici presenti nel territorio, ha forgiato in realtà una classe operaia consapevole e pronta alla lotta contro l’eccessivo sfruttamento, le brutali condizioni di lavoro, il carovita… E’ la fine di maggio e finora il tempo è stato ottimo: caldo, soleggiato e animato da un maestralino che gonfia le vele e spinge la barca che è una bellezza... Georges e Tiggy, la giovanissima moglie, sono già abbronzati: lui scrive il diario e qualche pagina di un nuovo romanzo, lei segue attentamente la vita di bordo e legge. La goletta ormeggia nel porto di Cavo, un paesino di quattrocento anime, tutto spiaggia, viti e macchia mediterranea. E’ un robusto veliero italiano che nei suoi fianchi generosi ha fino a ieri trasportato marmo di Carrara. Il capitano, Angelino, è biondo, elbano e non ha ancora trent’anni; altri quattro uomini compongono l’equipaggio. Oltre alle vele, ai fiocchi, al bompresso, c’è sulla barca un angolo "piratesco" molto accentuato: un angolo fatto di barili, ami da pesca, pentole, puzzo di pesce e di catrame e mucchi di vecchie cose poco pulite. Gli stessi marinai che lavorano incessantemente, pitturando e ripitturando il battello, mettono in mostra piedi sudici, gambe pelose e torsi nudi, perché fin dal primo mattino si sfilano i pantaloni e trascorrono la giornata in mutande. Spesso "il signore" è gentilmente pregato d’allontanarsi, perché a bordo c’è sempre da fare e lui è d’ingombro. Così Simenon scende a terra, passeggia per il villaggio, conversa con qualche abitante. Un giorno, camminando, scorge una casa in costruzione e vi si avvicina, per scambiare quattro parole con chi c’è: una sola stanza è pronta, i muri e il tetto sono finiti, ma manca il pavimento e porte e finestre sono latitanti. -Non continueranno i lavori?- chiede al supposto proprietario, intento ad accatastare mucchi di sabbia, cemento e tavole di legno. Gli si risponde con un sorriso che non è triste né rassegnato né indignato; un sorriso che vuol dire che si continuerà, si spera, un giorno, se ci sarà denaro, per ora si sospende, non si sa fino a quando... Eppure quel sorriso appartiene all’unico bottegaio del paese... e se sono al verde anche i bottegai... L’uomo non è loquace, Simenon non insiste, saluta e s’allontana. Ritornando verso l’Araldo, riflette che quell’espressione non gli è nuova: l’ha già vista sulla faccia di altri "mediterranei", sulla Costa Azzurra, per esempio. Rammenta di averla colta sui volti di caposala, barman, croupier, ma meno distesa, più "contratta", perchè loro non possono passeggiare con le spartiglie, stendersi sulle pietre del molo quando il sole è caldo e cibarsi con un pugno di riso. Dunque il denominatore comune è il Mediterraneo, il piccolo mare su cui si affacciano, come le rane sullo stagno, spagnoli, greci, italiani, siriani...è lui a plasmare corpi, fattezze, stili di vita, mentalità, abitudini, fatalismo e povertà... In un altro di quei dieci giorni trascorsi a Cavo, Simenon non riesce a staccare lo sguardo da una delle più belle costruzioni che abbia mai visto: si trova su uno sperone di roccia che, spingendosi in mare, crea lungo la costa due belle cale, di cui la più piccola è chiamata Cal dell’Alga, perché vi si adagiano, più che altrove, mucchi di posidonia soffici come nuvole. La villa ha un aspetto massiccio ma è alleggerita, sul davanti, da una terrazza ampia quanto la facciata, delimitata da una bella balaustra in pietra; appare circondata da un fitto parco d’alberi e cespugli. Simenon non rinuncia a vederla più da vicino, ma, a pochi metri da essa, il senso di abbandono si accentua: le inferriate in ferro battuto sono arrugginite, i viali invasi da piante selvatiche, i muri scrostati. Solo il profumo del rosmarino, del cisto, del corbezzolo, del lentisco, che si alterna a quello più forte del pino e del leccio, lo consolano di quella desolazione. -I proprietari sono morti?- chiede -No, vengono ogni estate- gli si risponde Dunque anche loro aspettano, come il bottegaio, come tutti... Ritornato sulla barca, la pipa all’angolo della bocca, il berretto da marinaio ben calcato sulla fronte, si siede a poppa: Tiggy sta riposando sull’amaca, il bel viso disteso, sereno, già baciato da quel sole mediterraneo. L’equipaggio, invece, è indaffarato a preparare la cena: stasera si mangerà il cacciucco, il soffritto di cipolla si diffonde già intorno e accarezza l’olfatto. Il mare è tranquillo, quasi stanco e sembra godersi anche lui il tramonto del sole. Simenon guarda le calette tra le rocce verdeggianti, le colline a terrazze coperte di viti...pensa ai tanti che in paese hanno l’aria di perdere tempo. -Ma quali sono le risorse dell’isola?- domanda a Angelino Il capitano lo guarda con stupore: - Non lo sapete? E’ uno dei centri minerari più importanti d’Italia- Lo scrittore si mette quasi a ridere;la parola "miniere" per lui rappresenta qualcosa di totalmente diverso: paesaggi selvatici, allineamenti di case operaie tristi come cimiteri, facce dure e piene d’astio e dovunque rotaie, scarichi, ciminiere che fanno nero il cielo... -Ma dove sono le vostre miniere?- -Laggiù- Angelino indica verso sud - a mezzo chilometro da qui- e parla di una trincea nella collina, come una cava, di vagoncini che vanno e vengono, di cartucce di dinamite che esplodono; dal molo di palafitte un rimorchiatore va a prendere chiatte cariche di minerali e le porta in continente - Ma non avete fabbriche?- - Sì, che le abbiamo! sono gli altiforni di Portoferraio! - Ma è un posto idilliaco...E le case operaie, qui, dove sono? - Sono queste, sparse per il paese... A Simenon sembrano tutte uguali, a parte le rare ville che vede, dimore dei "signori" del posto, borghesi che si sono arricchiti con gli appalti delle miniere: le abitazioni della gente comune sono dimesse, povere ma non misere, ognuna con un piccolo giardino e un minuscolo orto accanto e poi polli che razzolano intorno, piccole vigne e un asino per famiglia. Mentre i suoi uomini cominciano a tagliare le fette di pane per il cacciucco, e a strofinarci sopra uno spicchio d’aglio per insaporirlo, Simenon pensa alle sue frequentazioni atlantiche e a quel mondo così diverso da questo. Rammenta le esperienze di pesca a Boulogne, Ijimuiden, Edmen, accanto ai pescatori di merluzzo e di aringhe sui fondali dell’Oceano: trenta o quaranta uomini agli ordini di un armatore che decide quando si parte, quanto sarà la paga e quale la percentuale spettante per il pescato. Quei pescatori sono sindacalizzati, sono proletari: al ritorno si mettono in coda dietro lo sportello di uno squallido edificio per prendere la paga. Lì si pescano tonnellate di pesce e ne risente anche la Borsa; ci sono volte in cui si getta parte o tutto il pesce in mare per ragioni misteriose, incomprensibili da chi ha sgobbato due settimane sulle reti. Qui invece le barche sono gusci di noce e appartengono a più persone; gli uomini, seduti sulla sabbia o sui sassi del molo, passano giornate ad attaccare teste di sardine agli ami dei palàmiti oppure mettono pezzi di polpo nelle nasse di vimini per attirare i gronchi e le aragoste che non mangeranno mai. Talvolta pescano la sera, con una lampada fortissima, la lampàra, posta sul davanti della barca, per accecare il pesce e spingerlo nelle nasse o per prendere più facilmente i calamari. Qui non ci sono oscillazioni di mercato nè Borsa nè paga settimanale allo sportello. Non c’è insomma proletariato. Nel mondo mediterraneo la crisi è un’invenzione moderna, come lo sciopero o la serrata. Qui, come nella Bibbia, ci sono le vacche grasse e quelle magre, l’abbondanza e la miseria e soprattutto l’abitudine all’una e all’altra. Non ci si dispera quando si ha fame, perchè in qualche modo la solidarietà reciproca interviene e salva; non si gongola nella ricchezza perché si sa che tutto può essere perso in poco tempo...E’ rassegnazione? - si chiede Simenon- No, piuttosto saggezza, ereditata dagli antichi avi e entrata nei cromosomi di questa gente.