Il faceto dibattito filologico-filosofico, che vede ormai “Elbareport” come una nuova accademia, è più serio di quanto non possa apparire, e forse oltre la volontà dei due dotti autori pseudonimi (Tiro fisso e Primula). Le parole e la capacità di articolarle in maniera complessa segnano infatti un passaggio fondamentale dell’evoluzione della specie umana e marcano la sua differenza dalle altre specie. L’uso delle parole è fondato sull’ascolto, e sulla volontà di condividere i significati: cioè sulla capacità e sulla volontà di apprendere. In questo senso si tratta di un processo iniziato ma tutt’altro che concluso a livello di specie, e che inizia da capo per ogni individuo quando nasce ed entra in contatto con i suoi simili. Capacità e volontà, dunque; cioè disponibilità di strumenti di base (la lingua, le lingue, le grammatiche, le sintassi, la poesia, la letteratura, la musica, le arti figurative, la matematica, l’algebra, l’informatica, ecc.), e disponibilità ad apprenderne le possibilità di un impiego progressivamente complesso e capace di esprimere in modo comunicativo il proprio sentire e di comprendere il sentire altrui. E quanto più si procede nella conquista degli strumenti e nella capacità di adoperarli, tanto più si diviene padroni di noi stessi, ovvero capaci di determinare la nostra esistenza e di compiere scelte autonome e consapevoli. Però i dati comparsi sui giornali in questi giorni a riguardo del problema dell’analfabetismo in Italia sono piuttosto sconfortanti: sei milioni di analfabeti totali e trenta milioni di cittadini con la sola licenza media. L’ISTAT ha ridimensionato la cifra degli analfabeti totali sulla base dei risultati dell’ultimo censimento, riducendoli di nove decimi, intendendo cioè dire che solo poco più di settecentomila cittadini sono del tutto incapaci di leggere e scrivere: ma questo –anche a fidarsi di risposte forse un po’ reticenti per amor proprio– sposta poco, se è vero che in ogni caso oltre venti milioni non sono più capaci di leggere correntemente, comprendendone il senso, un testo di più di sei o sette parole, e meno ancora sono capaci di ridirlo dopo averlo letto (Tullio De Mauro, ‘La cultura degli italiani’, Laterza). E quanti sono quelli che, comunque, non leggono più nulla? La risposta naturale al problema è la scuola, luogo ove si formano le abilità linguistiche, le abilità logico matematiche, le abilità pratiche, e dunque la speranza di veder ‘promossi’ cittadini consapevoli e liberi. Questo dovrebbe essere chiarissimo agli studenti e ai loro insegnanti; e chiaro per quanto possibile ai genitori. Ma la scuola è anche il luogo dove talora germina la piccola furbizia del compromesso con se stessi e la propria vita, fondato sulla sensazione d’avere un tempo quasi infinito davanti a sé: la furbizia del prendere gli insegnati come controparte; il raffinamento dell’arte di perdere e far perdere tempo; la scienza dell’alibi; la malattia cronica del minimalismo che, in personalità non ancora compiutamente formate, serve a compensare il difetto di autostima e il bisogno di essere accettati a tutti i costi, qualunque cosa si faccia, qualunque atteggiamento si assuma. Va detto serenamente che non sempre la scuola è all’altezza del compito di ‘promuovere’ (cioè di ‘muovere in avanti’) i giovani che le sono affidati, di chinarsi sopra di loro senza farsi turbare dalla loro esuberanza spesso disordinata, di ascoltarli e correggerli fino a dare loro le abilità fondamentali (i linguaggi complessi) di cui dicevo sopra: spesso la scuola è fatta di giudici più che di maestri, perché giudicare gli effetti è più facile che ricercare le cause, fare diagnosi è più semplice che trovare buone terapie. E allora anche i comportamenti non corretti –il disimpegno, il ridimensionamento di sé, la ‘distrazione’, la ‘guerriglia’ scolastica– degli allievi si sopportano fino a quando sono ‘tollerabili’; oltre, si reprimono. Raramente si cerca di leggervi dentro. Così capita che si passino anni (e che anni) a sfiorarsi senza mai incontrarsi. Dai genitori la scuola raramente è considerata occasione di libertà: più spesso è solo la strada per raggiungere un’improbabile sicurezza sociale; oppure è una perdita secca di tempo, e come tale poco compresa e poco incoraggiata: altrimenti non si spiegherebbero i numeri allucinanti dell’abbandono scolastico post obbligo dei figli, né quelli –se vogliamo peggiori– dell’analfabetismo di ritorno che riguarda direttamente proprio i genitori. All’esterno della scuola c’è il mondo, al quale i giovani si affacciano dovendosi confrontare massicciamente con linguaggi ambigui o mortificanti: si pensi solo al fatto che nella nostra ‘cultura’ bene massimo è considerato il denaro, il quale nella sua essenza è invece il controvalore dei ‘beni’, cosicché spendiamo ogni nostra energia per accumulare ciò che ci dovrebbe servire per vivere, sacrificandogli di fatto la vita. Noi adulti cerchiamo di dare ai nostri figli i nostri obiettivi, i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri modelli: per il loro bene, naturalmente; ma in realtà cerchiamo di farli diventare quanto più possibile come noi: cioè, in ultima analisi, vecchi; e spesso anche infelici. Insegniamo loro a essere competitivi, a voler sempre vincere, e rischiamo di farne dei frustrati o dei disillusi; vogliamo che siano polloni, e non piante nuove, magari più di noi attrezzate a vivere in un ambiente così diverso da quello nel quale siamo cresciuti noi. L’ansia ci induce a prevalere sugli altri, forse anche con le migliori intenzioni; e quando ci riusciamo lo chiamiamo successo, anche se spesso ci distrae dal continuare a crescere, a formarci, a raffinarci; e allora chi è più disinvolto spende le due o tre cose che sa (e rispetto allo scibile nessuno di noi conosce più di due o tre cose) per mettersi in luce, per mostrarsi bravo, senza pensare che il successo si misura per differenza, cioè sull’inferiorità del concorrente. Così, nella rincorsa del successo può capitare di ‘scivolare’ in qualche svarione. Non è male di nulla, se ci si limita a fornire nuovo materiale per “Paperissima”, o per “A sciambere”. Meno innocente è lo scivolone professionale, come accade nell’ambito della formazione e della informazione, perché non riguarda l’individuo ma il pubblico al quale l’individuo si rivolge. Grave è invece quando lo scivolone è malizioso, quando diviene travisamento, calunnia, menzogna. Ma delle intenzioni non è lecito giudicare, lasciando che a farlo sia la coscienza di ognuno –fatto salvo il dovere di correggere le informazioni errate o malevole–. Anche perché spesso tutto nasce dal bisogno di esibizione (e l’esibizione annulla la disposizione ad ascoltare e la capacità di capire). Questo per quanto riguarda il presente, e il mondo adulto. Per il futuro, la speranza è la scuola. Luigi Totaro P. S. Un amico burlone incontrato per strada mi ha apostrofato dicendo che sono diventato un cultore dell’“occhio per occhio” veterotestamentario, in barba al cristiano richiamo alla non violenza. Pare che tutto nasca dalla mia affermazione su “Elbareport” –“lasciar fare quando si subisce una violenza grande o piccola è mafia”–, che sarebbe stata ritenuta contraria al perdono cristiano. Non so di dove venga fuori questa sciocchezza. La frase per intero è: “Mafia è anche la menzogna o la complicità nelle mille occasioni quotidiane; è il lasciar fare quando si subisce una violenza grande o piccola, quando la si vede consumare senza dir niente, quando la si consuma”. La vendetta non c’entra nulla: il riferimento è chiaramente all’omertà mafiosa. Volendo escludere che chi ha equivocato condivida quella mentalità, si ritorna al problema della scuola…
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