L’intervento di Luigi Totaro mi ha aiutato a capire il motivo per cui il programma Rockpolitic di Celentano non è rientrato fra le mie poche frequentazioni televisive, a dispetto della pubblicità, dei giornali, dei telegiornali che in queste settimane -ma ormai da un anno- ne hanno parlato con frequenza martellante. Si scomodano anche i politici a dare valutazioni del programma, molto spesso poco articolate (Andy Luotto docet) e nella maggior parte dei casi strumentali alla propria appartenenza politica (piace al centrosinistra, non piace al centrodestra); c’è addirittura chi lo porta a dimostrazione dell’evidente pluralismo e della democrazia della televisione italiana. Il programma l’ho dunque intravisto solo per pochi minuti durante i miei allenamenti di zapping serale alla ricerca di qualcosa di interessante da vedere in televisione. A dire il vero non mi sono chiesto il perché del mio disinteresse per il Predicatore; quelle “prediche” sono semplicemente depositate, con gli automatismi talvolta incomprensibili della nostra mente, in quella zona di semioblio piuttosto vasta delle “cose alle quali penserò se avrò tempo”. Luigi mi ha allora fornito il pretesto per poterci ragionare. Concordo con le affermazioni di Zagrebelsky: “Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia: più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica”. Le parole esprimono concetti, i concetti sono l’essenza della dialettica, la dialettica è la base della convivenza democratica di una società. Guerra o pace, destra o sinistra, “buono” o “no buono”, bianco o nero, sono determinazioni estreme che prese a sé non danno indicazioni (perfino Disney fa cantare a Merlino “per ogni su c’è sempre un giù, per ogni se c’è sempre un ma, qua e la, va e sta, questo il mondo fa girar”); fra le determinazioni estreme sta la dialettica, la capacità di utilizzare le parole, non per vincere un’improbabile sfida, ma per comprendere le ragioni dell’altro ed eventualmente per con-vincerlo delle proprie, mai per annientarlo. Con l’annientamento dell’altro cessa la dialettica, finisce la democrazia e inizia la tirannia, il regime totalitario. Queste considerazioni, apparentemente banali e sottoscrivibili da chiunque, parte integrante di una cultura che da Socrate arriva ai giorni nostri passando per Marx -che ha fatto della dialettica la base del suo pensiero-, sono poi difficilmente applicabili nella realtà; o forse non sono in fondo così condivise. Ho seguito alcune nostre vicende in questi giorni ed ho notato come rapidamente alla dialettica si sostituiscano le offese personali, i messaggi trasversali; e si annulla la possibilità di con-vincersi, e subentra invece l’arroccamento sulle proprie posizioni, costi quel che costi. Ecco allora la demagogia di cui sono pieni i discorsi, gli articoli e i proclami di molte persone. Perché, alla fine, penso che chi vuole annientare l’altro ne abbia soprattutto, paura; e con chi ha paura non è facile parlare, e può anche essere rischioso. Perché l’altro non parla per dialogare con te, ma per cercare aiuti e alleanze (per questo ‘indottrina’ i suoi). In fondo parla per sopravvivere.
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