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Controcopertina: Zagrebelsky è rock o è lento?

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : giovedì, 10 novembre 2005

"Essendo la democrazia una convivenza basata sul dialogo, il mezzo che permette il dialogo, cioè le parole, deve essere oggetto di una cura particolare, come non si riscontra in nessuna altra forma di governo. Cura duplice: in quanto numero e in quanto qualità. Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia: più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter pronunciare solo sì e no, saremmo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti entro le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l’esigenza di impadronirsi della lingua? Comanda chi conosce più parole (…). Con il numero la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il dialogo sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore". Questo brano, tratto da un libretto da leggere tutto, ‘Imparare la democrazia’ del già presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky (La biblioteca di repubblica, 2005), ha richiamato alla mia mente un tormentone che da qualche settimana pervade il vasto pubblico televisivo e la stampa che di televisione si occupa, in corrispondenza dei monologhi di Adriano Celentano nella sua “Rockpolitick” del giovedì sera. “E’ rock”, “è lento”. Oggetti, persone, azioni, pensieri, stati d’animo, passioni, tutto insomma è ricondotto a una delle due qualificazioni; il mondo intero, potremmo dire, sottostà a questo giudizio, che è poi essenzialmente un giudizio di accettazione o di rifiuto, di adesione o di esecrazione, applicato al privato e al pubblico. L’operazione non è nuova: già una trentina d’anni fa Renzo Arbore, in “L’altra domenica”, celeberrima trasmissione domenicale del pomeriggio, aveva con felicissima intuizione affidato a Andy Luotto un analogo strumento di giudizio dell’universo: “Buono”, “No buono”, diceva il comico, allora sconosciuto; ed erano le uniche due parole che pronunciava in tutta la trasmissione. Arbore aveva allora introdotto, con la leggerezza che gli è propria ma anche con altrettanta intelligenza, il tema della semplificazione del linguaggio; il suo Andy incarnava il ‘primitivo’ geniale, quasi il ‘Venerdì’ di lui, novello Robinson, incamminato alla ricerca di una alternativa alla televisione di intrattenimento soporifero. Si capiva che il “Buono”, “No buono” erano come una gabbia nella quale Andy si sentiva prigioniero, e cercava di esprimere con una mimica accentuata quello che ‘non riusciva’ a dire se non con quelle due poverissime parole. Celentano sembra invece esaltarsi in quella sua trovata; e con una operazione specularmene opposta a quella di Arbore, sembra voler favorire quella semplificazione, quasi implicitamente suggerirla come paradigma dell’esistente. Ecco Zagrebelsky: l’idea di un mondo diviso in bianco e nero, in buono e no buono, in rock e lento, rivela molto più efficacemente degli ospiti “alternativi” che si susseguono sul suo palco la cultura che Celentano rappresenta, la “cultura del plebiscito”: la cultura dell’adesione tutto o niente all’ecologia, alla pace, alla giustizia (valori assolutamente positivi) come a qualcosa di dato, di esistente in sé, da prendere o da lasciare come sono proposti, non da costruire attraverso la lettura critica del mondo e della vita. Rockpolitik: politica rock, se comprendo bene. Dice ancora Zagrebelsky: “Politica viene da ‘polis’ e ‘politeia’, due concetti che indicano vivere insieme, il convivio. E’ l’arte, la scienza o l’attività dedicate alla convivenza (…). La celebre definizione di Carl Schmitt, della politica come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità assoluta tra parti avverse, è forse l’esempio più rappresentativo di questo abuso delle parole. Qui avremmo, se mai, la definizione essenziale non del ‘politico’ ma, propriamente, del ‘bellico’, cioè del contrario. Ancora: la libertà, nei tempi nostri avente il significato di protezione dei diritti degli inermi contro gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo dietro il quale proprio costoro nascondono la loro pre-potenza e i loro privilegi. E ancora: la giustizia, da invocazione di chi si ribella alle ingiustizie del mondo, si è trasformata in parola d’ordine di cui qualunque uomo di potere si appropria per giustificare qualunque propria azione. E ancora, ancora: ‘legge di mercato’ per ‘sfruttamento’; ‘economia sommersa’ per ‘lavoro nero’, ‘guerra preventiva’ per ‘aggressione’; ‘pacificazione’ per ‘guerra’; ‘governare’ per ‘depredare’; ‘deserto’ per ‘pace’. Da questi esempi si mostra la regola generale cui questa perversione delle parole ubbidisce: il passaggio da un campo all’altro. Quando si tratta di parole e concetti della politica, normalmente il passaggio è dal mondo di coloro che al potere sono sottoposti a quello di coloro che del potere dispongono. Un uso ambiguo, dunque, di fronte al quale chi pronuncia queste parole dovrebbe sempre porsi la domanda: “da che parte stai? Degli inermi o dei potenti?”. Zagrebelsky è rock o è lento?


Adriano Celentano

Adriano Celentano

Renzo Arbore

Renzo Arbore

Andy Luotto

Andy Luotto