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Controcopertina: Luigi Totaro - Vi parlo dal "Gotha del sinistrismo elbano

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : domenica, 06 novembre 2005

Caro Sergio, ma quanta gente mi conosce! Sanno le mie appartenenze politiche, mi ascrivono al “Gotha del sinistrismo elbano”, conoscono pensieri mai espressi e intenzioni mai manifestate. E’ soprattutto a Destra che sono popolare, e la cosa fa pensare: visto che “il Gotha del sinistrismo elbano” in realtà non mi ha mai considerato –io del resto non so dov’è, e così siamo pari–, dovrei gioire intimamente del fatto che almeno la Destra si accorge di me, mi legge, mi segue. Non posso dire che capisca, almeno a giudicare da quel che dice un signore a me sconosciuto, tale Nanni Gioiello di cui mi si segnala un articolo stampato non so dove, probabilmente appartenente al Gotha della Destra elbana. Apprezzo la compagnia che mi regala, tanto di Sangalli, che di Soria, che del Direttore di “Elbareport”, e voglio sperare che anche gli altri citati facciano altrettanto. Non so però attribuire con precisione a chi spettino “i pensieri filosofici, i sofismi giudiziari, gli ‘amarcord’ personali, le solidarietà politiche, le rigidità giacobine e le intransigenze puritane”. Mi pare che a me non ne tocchi nulla: di Enrico Graziani ho detto che gli sono amico e gli sono vicino in questo momento difficile; volevo soprattutto dirlo a lui. E poi volevo corroborare una affermazione da me fatta in occasione di un caso consimile. Non capisco il riferimento ai “neo garantisti e post giustizialisti interni al movimento”, se non per la distinzione implicita dai “neo garantisti e post giustizialisti della Destra”, subentrati al forcaiolismo nel quale si erano distinti a lungo nel corso degli anni che vanno dal dicembre 1969 fino alla discesa in campo di Berlusconi. Quanto a me, che ho una certa idiosincrasia per le parole che finiscono in “ismo”, mi sono limitato a ricordare a Cesare Sangalli un aspetto importante della vicenda della quale ci stavamo occupando, con una citazione –lapalissiana quanto si vuole– di un principio fondamentale del diritto: perché talvolta, nella passione politica, capita di saltare qualche passaggio, magari dandolo per scontato. Nel livore politico, invece –e penso ai penosi proclami della Destra campese e livornese in questi giorni– tutto pare utilizzabile per prendere vendetta di antiche, infinite frustrazioni: non posso quindi che rallegrarmi del fatto che il mio censore almeno su un punto concordi con me e con le leggi fondamentali dello Stato, a differenza di quella Destra. Non credo però che sia possibile trovare una mia presa di posizione diversa da quella che ho assunto oggi, proprio perché essa corrisponde appunto lapalissianamente al dettato costituzionale; ed escludo di aver mai sollecitato dimissioni di chicchessia, poiché lo considero un atteggiamento moralistico: vano, se in buona fede; spregevole, se dettato da animosità. Ma il mio ragionamento, nello scritto incriminato, passava velocemente su tutto questo, per andare al nocciolo che costituiva tutta la seconda parte dell’intervento. Il punto nodale della la vicenda politica elbana (italiana, europea, mondiale) negli ultimi dieci o quindici anni, e soprattutto nel tempo presente, sta a mio avviso nel passaggio dal moralismo politico alla riproposizione forte del tema della “legalità”. In questi giorni se ne parla molto, e certo non è mai troppo. Bisogna però intendere bene che la questione della legalità non passa alta sopra la nostra testa, non è cosa lontana e arcana, non appartiene ai nobili principi del “sarebbe bello”. E soprattutto non riguarda “gli altri”. Ogni giorno a noi tutti capita di attraversarla, e spesso di scansarla o far finta di non vederla. Certo l’efferatezza della mafie potenti della Sicilia, della Calabria, della Puglia, della Campania ci è nota e ci ripugna, e in genere non manca il nostro impegno di simpatia e di solidarietà per chi –come i giovani di ieri a Locri– l’affronta a proprio rischio e pericolo. Ma le mafie non sono solo quelle organizzate, grandi e potenti; anzi esse sono solo l’espressione trucemente attiva di un atteggiamento culturale che le unifica tutte, e che è la radice della Mafia. E tale atteggiamento culturale non è prerogativa delle infelici popolazioni del Meridione: è presente qui da noi, e in fondo ognuno di noi se lo porta dentro, grandi e piccini. Perché Mafia è farsi da sé la propria legge: decidere da sé quando le tasse sono troppe, quando si deve fare o chiedere la fattura, quando si devono pagare i contributi ai dipendenti o meno, magari con aggiunte in nero alla busta paga; decidere quando e come assumere un collaboratore in modo difforme da quanto previsto per le prestazioni reali richieste; chiedere di poter lavorare ‘al nero’ d’inverno, per non perdere l’indennità di disoccupazione, o andare a lavorare anche quando si avrebbe diritto a stare a casa, per non subire rappresaglie, ecc. Mafia è anche la menzogna o la complicità nelle mille occasioni quotidiane; è il lasciar fare quando si subisce una violenza grande o piccola, quando la si vede consumare senza dir niente, quando la si consuma; è approfittare del proprio vantaggio su chi è in svantaggio; è ricattare chi ci ama o terrorizzare chi non può amarci. Mafia è il casco non abbottonato, le cinture non allacciate, la scuola saltata; è usare il proprio potere, piccolo o grande che sia, per coprire la propria pigrizia o la propria malizia; è capovolgere il rapporto fra chi deve dare e chi deve ricevere un servizio, sia esso la scuola, la salute, la casa, la sicurezza. Mafia è la prevaricazione dei genitori sui figli, immaginati e desiderati come strumenti della propria gratificazione o parafulmine delle proprie frustrazioni. Mafia è togliere la libertà di decidere della propria vita, di correggerla rompendo la ‘routine’, di reindirizzarla sulla strada di speranze nuove; è togliere la libertà di donare e di donarsi, prendendo prima e per forza ciò che si desidera senza rispetto dell’altro. Mafia è rinunciare a vivere pur d’avere denaro, è vendere morte per denaro. E ancora, ancora, ancora, con responsabilità e pericolosità diverse, ma con logica condivisa. A questa cultura largamente diffusa non si può opporre che l’affermazione solenne e pratica della legalità: che vuol dire ricollocare ogni valore al suo luogo, ogni comportamento alla sua norma –cioè verificando che ogni nostra azione possa essere assunta come norma per tutti–, ogni persona alla sua dignità –cioè considerando ciascun altro essere umano come fine e mai come mezzo–, secondo l’insegnamento di uno dei padri del pensiero moderno, ma anche secondo la più antica tradizione cristiana. Credo che questa sia l’unica strada percorribile, e che vada percorsa ogni giorno con un processo di puntuale attenzione a ogni manifestazione del nostro agire, a cominciare da casa nostra. Alla scuola, poi, il compito di fornire gli strumenti e le abilità per compiere questo percorso esistenziale (il resto è ampiamente secondario); alla comunità adulta il dovere della testimonianza diretta. A tutti l’incombenza ineludibile della sorveglianza e del controllo. Alle Istituzioni l’onere di garantire il rispetto delle leggi, che della legalità sono l’espressione sintetica, come la violenza lo è della Mafia.


campo elba panorama golfo cote spaccata

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