L’intervento di Cesare Sangalli mi offre l’occasione per alcune note sul concetto di “partecipazione”. Perché di esso sono possibili diverse interpretazioni, tutte ovviamente plausibili e lecite; e quindi è necessario definirne una dalla quale far derivare la “politica della partecipazione”. Nell’ambito del governo –a tutti i livelli– si può ritenere che la partecipazione debba consistere nel chiamare il popolo sovrano alla formulazione delle linee di azione amministrativa. Di per sé questa interpretazione sembra corrispondere alla realizzazione piena ed effettiva della democrazia, ma presuppone un “popolo” che non sia solo nominalmente sovrano, cioè che sia “effettivamente” in grado di esercitare l’azione di governo; il che non si dà nella nostra società complessa e articolata, che per essere amministrata richiede competenze alte, specifiche e variate. Altrimenti la democrazia si corrompe in “demagogia”, come avvertivano quelli che la democrazia l’hanno inventata, ad Atene nel V-IV secolo a. C.: cioè uno o alcuni compiono delle scelte e poi convocano il popolo e le “fanno fare” a lui, con un procedimento illusorio se non ingannevole. Nel tempo presente, ad esempio, la riforma della signora Moratti insiste continuamente sulla “partecipazione” delle famiglie alla formazione scolastica degli alunni, appunto sottolineandone l’alto contenuto democratico. Ma non si domanda quale competenza specifica possono avere le famiglie –e non solo nelle realtà decentrate– a riguardo; e va a finire che le “scelte” delle famiglie o sono fortemente orientate dagli operatori scolastici (e quindi sono delle famiglie solo in apparenza: che è il caso migliore), o sono determinate dalle “proiezioni” che le famiglie esercitano sul destino dei loro figli, legate cioè alla propria esperienza (quindi al passato) piuttosto che alla vita dei figli (cioè al futuro): sovente con conseguenze perniciose. Un’altra interpretazione, più moderna, propone una prassi mediata: in sede di elezioni un ‘team’ si propone come amministratore sulla base di un programma di governo, e richiede la fiducia per realizzarlo: ovviamente questa sarà più facilmente ottenibile quanto più sarà capace di interpretare le necessità del territorio come sistema –cioè secondo un criterio di ecologia-economia–, e pertanto sarà assai opportuno sentire la voce del popolo per evitare di formulare un programma astratto. Ma sarebbe grave errore considerare questo “ascolto” come partecipazione: perché il popolo è fatto di individui che hanno differenti capacità di lettura dei problemi generali, quando non una spiccata tendenza a considerare come generali i propri problemi personali: e allora c’è il rischio di prestare ascolto a chi parla più forte o a chi è più forte, cioè a chi porta più voti. Con la conseguenza che l’eventuale riuscita parziale del programma finisce per essere in qualche modo attribuita alla responsabilità “partecipata”, risolvendosi in un alibi per chi invece si era candidato a portarla per conto di tutti. Insomma il programma deve essere formulato da chi vuole governare, per produrre il bene generale: se non riesce a fare ciò che si è proposto e ha proposto, il popolo sovrano lo manda a casa. Se invece incontra delle difficoltà oggettive, farà bene a spiegarle al popolo, a “parteciparle”; così come sarà suo interesse “partecipare” i risultati via via raggiunti, o le variazioni apportate al programma: il che non significa “portare un po' di gente in una sala e spiegare cosa sta facendo l'amministrazione”, come giustamente dice Sangalli; significa rendere conto delle proprie azioni e riscontrarne la corrispondenza con il programma o indicare le motivazioni dell’eventuale necessità di modificarlo. La partecipazione deve essere una esigenza degli amministratori prima ancora che dei cittadini –per i quali “partem capere”, prender parte, resta comunqueun dovere, oltre che la principale possibilità di crescere nella propria “competenza” politica–: “nasce da una volontà di trasparenza e apertura che richiede una buona dose di coraggio (diciamo di "volontà politica") –dice ancora Sangalli–. E i soldi, i bilanci, c'entrano eccome”. Mi pare questo un punto essenziale. Amministrare vuol dire gestire risorse: indirizzarle, tesaurizzarle, anche inventarle, nell’interesse generale; ma avendo in mente un progetto di sviluppo della società che si amministra, un progetto a lungo periodo e ad ampio orizzonte. Certamente l’“ordinaria amministrazione” è la parte più grossa della vita di un Ente, e l’intervento nell’ordinaria amministrazione non è né semplice né indolore; per questo a maggior ragione deve essere trasparente e quanto più possibile condiviso. Ma oltre, toccando i grandi temi della vita delle comunità –sanità, scuola, servizi; e poi ancora assetto del territorio tanto antropizzato quanto non antropizzato, sviluppo delle attività economiche, progetto complessivo del sistema– si esprimono le capacità più rilevanti degli amministratori: che sono quelle di vedere oltre il contingente, l’esistente, per immaginare il futuro consolidando quanto è ancora da ritenere vitale e modificando anche sostanzialmente quanto è ormai incapace di produrre sviluppo. Ovviamente nessuno pensa che gli amministratori eletti abbiano delle competenze specifiche, tecniche –che potranno attivare ricorrendo ai tanto denigrati consulenti, indispensabili per riuscire a operare (e che non è assolutamente necessario pagare a peso d’oro)–; la loro competenza deve essere “politica”, quella appunto espressa nella formulazione del programma. Eccoci ai bilanci, ai soldi. Tutto quanto si è visto appartenere all’attività amministrativa sta dentro lo strumento fondamentale che è il bilancio, che traduce in cifre tutte le attività di governo. Ogni amministrazione dovrebbe prima di tutto “partecipare” i bilanci, anche ‘in corso d’opera’: far sapere quantità e ragioni delle allocazioni di fondi alle diverse voci, delle variazioni, delle realizzazioni: e allora diviene chiaro che il regolamento urbanistico non è soltanto una “sistemazione” dei bisogni presenti, ma un investimento nella principale risorsa di ogni comunità, cioè il proprio territorio; la progettazione del territorio è sicuramente fuori della competenza tecnica degli amministratori: ma decidere se lo sviluppo di un territorio come il nostro debba realizzarsi attraverso la rendita edilizia (affitti estivi ai turisti) o attraverso lo sviluppo dei servizi ai turisti (con disponibilità di affitti tutto l’anno per i nostri concittadini operatori nei servizi) è una scelta politica che rientra appieno nelle politiche degli amministratori, e che è loro interesse “partecipare”. Insomma: il problema della mancata partecipazione non è sicuramente legato all’assessore De Michieli Vitturi –che è intelligente e competente–, ma alla mancanza di chiarezza riguardo alla natura e all’oggetto della “partecipazione”, e in ultima analisi alla debolezza di un programma che, per amore o per forza, si è delineato più sull’onda della necessità di provvedere all’ordinaria amministrazione che non sulle grandi prospettive di sviluppo della società portoferraiese e elbana. E forse ciò di cui si ha maggior bisogno oggi a Portoferraio non è un rimpasto di giunta, ma –senza perdere di vista l’ordinaria amministrazione– di una ritrovata spinta a progettare davvero ‘ex novo’ un futuro al quale, tutti, “partecipare”.
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