Parlare di se stessi, lasciare che, attraverso le parole dell’intervistatore, l’altro si dimentichi di essere l’intervistato, stravolgere i ruoli per creare una dinamica di reciprocità fino al punto di fare cadere le barriere, naturali o forzate, della diffidenza, dell’introversione, o anche di un malcelato senso di superiorità. Questo è stato Truman Capote giornalista. Mettersi a nudo per togliere qualsiasi imbarazzo, farsi ascoltare per far scaturire la voglia di raccontarsi, pochissime domande, mai un taccuino o un nastro, solo la forza della sua memoria, del suo spirito di osservazione, che poi vanno ad amalgamarsi con una straordinaria arte di sintesi fra intervista e romanzo. Ed ecco che un classico incontro fra il famoso scrittore e la star del cinema dà origine ad un racconto dai contenuti imprevedibili anche per il personaggio principale: “quel piccolo bastardo mi ha fregato” dirà Marlon Brando all’uscita dell’articolo su “The New Yorker”. E’ il 1956 e Capote cena con l’attore in un hotel di Kyoto, durante le riprese di “Sayonara”. Nella stanza si diverte a studiare le cameriere in kimono, il disordine, ma anche i tratti del volto del divo più amato del momento, che non sono più quelli del loro primo incontro dieci anni prima. Capote ne percepisce subito la maturazione dal suo modo di parlare e di porsi di fronte ad una personalità altrettanto forte. La spontaneità è la stessa degli esordi, ma negli occhi, nelle pause, nel pudore che contrasta con il ruolo di bello e maledetto, Brando non riesce a celare l’inizio di quel disagio che lo accompagnerà per il resto della carriera, forse la solitudine di cui non si libererà mai. Proprio lì Capote va a scavare, perché probabilmente vi coglie il conforto di una propria immedesimazione molto profonda. Parla e lascia parlare, ascolta e si lascia ascoltare, mentre Brando abbassa le difese: l’infanzia, la madre alcolizzata e il padre di cui non ricorda il volto, New York, l’Actor’s Studio, i sogni e le prime scritture in teatro, parole dure sul cinema, ma anche su James Dean, che non ha mai amato per quel suo imitarlo e cercarlo con maniacale insistenza. Poi gli amici che in pratica non esistono, il disgusto per l’idolatria nei suoi confronti, l’ansia di non riuscire a fidarsi di qualcuno, l’esigenza di doversi comportare come “un duca nel suo dominio”. Mentre continua a parlare l’attore Marlon Brando nemmeno si rende conto di essere solo il signor Brando, smette di recitare il ruolo di se stesso, il ruolo di chi deve piacere e fa di tutto per non piacere a nessuno, davanti a quel piccolo uomo dai modi gentili, in mezzo a copioni pieni di correzioni che cessano di appartenergli. Capote ha raggiunto il suo scopo, il mito non esiste più, niente poster o primi piani al cinema, ma l’intimità di un uomo che inconsapevolmente non riesce a nascondersi. L’intento non era abbattere il gigante, ma mostrarne un volto diverso, sofferto per davvero ma non per forza e non per contratto, catturarne la spontaneità e le sfumature più personali per raccontare ciò che non è più la disinvoltura e la virilità di “Un tram chiamato desiderio”, che magari lascia intuire la tragedia e l’oblio di “Apocalipse Now”. E forse anche immedesimarsi in un destino che già allora sembra voler accomunare due personaggi unici, due uomini straordinari. “Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio.” Truman Capote Truman Capote Il Duca nel suo domino – Intervista a Marlon Brando Mondadori Euro 6,80
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