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"Dieci dispacci a proposito di luoghi" di John Berger

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : sabato, 10 settembre 2005

[1] Qualcuno si informa: sei ancora ‘in marxista? Mai la devastazione provocata dalla ricerca del profitto, secondo la definizione che ne dà il capitalismo, è stata più ampia di oggi. Lo sanno quasi tutti. Com’è possibile allora non dare retta a Marx che profetizzò e analizzò quella devastazione? Si potrebbe rispondere che molti hanno perso ogni orientamento politico. Privi di mappe, non sanno in che direzione stanno andando. [2] Seguono segnali che indicano luoghi che non sono la loro casa, ma una destinazione prescelta. Segnali stradali, tabelloni d’imbarco negli aeroporti, indicazioni ferroviarie. C’è chi viaggia per svago, chi per affari, molti perché hanno perso tutto e sono disperati. Una volta a destinazione scoprono di non essere nel posto indicato dai segnali che hanno seguito. Il luogo dove ora si trovano ha la latitudine, la longitudine, l’ora locale e la moneta giusti, eppure non ha il peso specifico della destinazione desiderata. Sono vicini al luogo dove hanno scelte di andare. La distanza che li separa da quel luogo è incalcolabile. Può trattarsi solo di una strada, o di un intero mondo di distanza. Il luogo ha perso ciò che ne faceva una meta. Ha perso il suo territorio di esperienza. A volte alcuni intraprendono un viaggio privato e trovano il luogo che volevano raggiungere, spesso più duro di quanto avessero previsto, anche se lo scoprono con un sollievo infinito. Molti non ci arrivano mai. Accettano i segnali che indicano loro la strada. ed è come e non fossero in viaggio, come se restassero sempre dove già erano. [3] I particolari dell’immagine nella pagina accanto sono opera di Anabell Guerrero, che li ha realizzati nel centro di accoglienza per rifugiati e migranti di Sangatte, un campo profughi della Croce rossa, vicino a Calais e al tunnel sotto la Manica. Di recente, su ordine del governo britannico e di quello francese, il centro è stato chiuso. Vi avevano trovato rifugio centinaia di persone, molte delle quali speravano di raggiungere la Gran Bretagna. L’uomo delle fotografie — Guerrero preferisce non rivelarne il nome — è della Repubblica Democratica del Congo. Ogni mese milioni di persone lasciano il paese d’origine. Se ne vanno perché lì non c’è niente, tranne quel tutto che non offre abbastanza da sfamare i propri figli. Come accadeva una volta. E la povertà del neocapitalismo. Dopo viaggi lunghi e terribili, dopo aver sperimentato la bassezza di cui gli altri sono capaci, dopo essere arrivati a fare assegnamento sul proprio inimitabile e tenace coraggio, i migranti si trovano ad aspettare in qualche centro di raccolta straniero. Del continente casa non resta loro altro che se stessi: le loro mani, i loro occhi, i loro piedi, le spalle, i corpi, ciò che indossano e che si tirano sulla testa di notte per dormirci sotto, desiderosi di un tetto. Grazie all’immagine di Guerrero ci accorgiamo che le dita di un uomo sono quanto rimane di un campo coltivato, le palme delle mani ciò che rimane del letto di un fiume, e i suoi occhi una riunione di famiglia a cui non prenderà parte. Ritratto del continente migrante. [4] “Sono sulle scale di una stazione della metropolitana, vado a prendere la linea B. È molto affollata. Dove sei? Davvero! Com’è il tempo? Sto salendo sul treno — ti richiamo dopo...”. Dei miliardi di conversazioni al cellulari che si svolgono ogni ora nelle città e nelle periferie del mondo, la maggior parte, che siano telefonate private o di lavoro, cominciano con una dichiarazione relativa al luogo in cui si trova chi chiama. Tutti hanno un immediato bisogno di localizzarsi, Come se volessero sgombrare il campo dal dubbio di non essere da nessuna parte. Circondati da così tante astrazioni, hanno bisogno di inventare e condividere i propri transitori punti di riferimento. Più di trent’anni fa Guy Debord scrisse profeticamente: “L’accumulazione di merci prodotte in serie per lo spazio astratto del mercato, da un lato ha mandato in frantumi tutte le barriere regionali e legali, e tutte le medievali restrizioni corporative che mantenevano la qualità della produzione artigianale, dall’altro ha distrutto l’autonomia e la qualità dei luoghi”. Il termine chiave dell’attuale caos globale è delocalizzazione o rilocalizzazione. Il riferimento non è solo alla consuetudine di spostare la produzione là dove la manodopera è più a buon mercato e la regolamentazione minima. In esso è racchiuso anche il demente sogno off-shore del nuovo potere in corso: il sogno di minare lo status e la sicurezza di tutti i luoghi un tempo fissi, in modo che il mondo intero si trasformi in un unico, fluido mercato. Fondamentalmente il consumatore è un individuo che si sente - o è spinto a sentirsi - perso se non consuma. Marchi e loghi diventano i nomi di luogo del “Da nessuna parte”. Altri segni che annunciano libertà o democrazia, termini saccheggiati a periodi storici precedenti, sono a loro volta usati per confondere. In passato una tattica consueta impiegata da chi difendeva il proprio paese dagli invasori era cambiare i cartelli stradali in modo che quello per Saragozza fosse rivolto nella direzione opposta, verso Burgos. Oggi non sono i difensori, ma gli invasori stranieri a spostare i cartelli per disorientare la popolazione locale, confonderla rispetto a chi governa chi, alla natura della felicità, alla misura del dolore, o al punto in cui trovare l’eternità. E lo scopo di tutte queste indicazioni fuorvianti è persuaderci che la salvezza finale sta nel diventare tutti clienti. Eppure ciò che definisce un cliente è dove paga l’albergo, non dove vive e muore [5] Vaste aree che un tempo erano località rurali stanno per essere trasformate in zone. I dettagli del processo variano in base al continente - Africa o America Centrale o sudest asiatico. Lo smembramento inizia, tuttavia, viene sempre da fuori e da interessi societari che rincorrono la propria insaziabile fame di accumulazione, impadronendosi delle risorse naturali (pesce nel Lago Vittoria, legno in Amazzonia, petrolio ovunque lo si trovi, uranio in Gabon eccetera), senza badare a chi appartengano la terra o l’acqua. Lo sfruttamento che ne segue richiede aeroporti, basi militari e paramilitari per difendere ciò che viene dirottato, e la collaborazione dei mafiosi locali. Possono nascerne guerre tribali, carestie e genocidi. Chi abita in queste zone perde ogni percezione di casa: i bambini si trasformano in orfani (anche quando non lo sono), le donne in schiave, gli uomini in banditi. Una volta che è successo, ci vogliono generazioni per ritrovare un qualche senso di vita familiare. Ogni annodi questa accumulazione prolunga il “Da nessuna parte” nel tempo e nello spazio. [6] Intanto - e la resistenza politica spesso comincia in un intanto - la cosa più importante da capire e ricordare è che chi trae profitto dal caos attuale, con i propri cronisti radicati nei mezzi d’informazione, continua a dare informazioni erronee e a farci sbagliare strada. Le loro dichiarazioni e tutti i termini di cui si sono impadroniti e che hanno l’abitudine di usare non andrebbero mai messi in discussione, Vanno respintiti in modo netto e abbandonati. Non porteranno nessuno da nessuna parte. La tecnologia dell’informazione sviluppata dalle società multinazionali e dai loro eserciti per poter dominare più speditamente il loro “Da nessuna parte”, è utilizzata dagli altri come mezzo di comunicazione attraverso il “Dovunque” a cui cercano di arrivare. Lo scrittore caraibico Edouard Glissant lo dice molto bene: “Se si vuole resistere alla globalizzazione non si deve negare la globalità, ma immaginare cosa sia la somma finita di tutte le possibili particolarità e abituarsi all’idea che, finché manca una singola particolarità, la globalità non sarà quel che dovrebbe essere per noi”. Stiamo definendo i nostri punti di riferimento, dando nome ai luoghi, scoprendo la poesia. Sì, nel frattempo si scopre la poesia. Gareth Evans: Quando il mattone del pomeriggio conserva il calore rosa del viaggio quando la rosa gemma uno spazio verde al respiro e fiorisce come il vento quando le esili betulle sussurrano le loro storie del vento a ciò che preme nei frutti dell’orto quando le foglie della siepe conservano la luce che il giorno credeva perduta quando il nido del suo polso batte come il petto di un passero nella mutevole aria quando il coro della terra trova i loro occhi nel cielo e li rivela gli uni agli altri nella fertile oscurità abbi cara ogni cosa [7] Il loro “Da nessuna parte” produce una consapevolezza del tempo strana, perché inaudita. Tempo digitale, che continua per sempre incessante di giorno e di notte, nel corso delle stagioni, alla nascita e alla morte. Indifferente come il denaro. Eppure, benché continuo, è assolutamente unico. È il tempo del presente tenuto a distanza dal passato e dal futuro. Al suo interno solo il presente ha peso, gli altri due mancano di gravità. Il tempo non è più un colonnato, ma un’unica colonna di uno e di zeri. Un tempo verticale intorno a cui non c’è nulla, eccetto l’assenza. Leggete qualche pagina di Emily Dickinson e poi andate a vedere il film Dogville di Lars von Trier. Nella poesia di Dickinson la presenza dell’eterno accompagna ogni pausa. Il film, al contrario, mostra spietatamente che cosa succede quando dalla vita di tutti i giorni viene cancellata ogni traccia di eternità. Succede che ogni parola e l’intero linguaggio non hanno più significato. Nel singolo presente, nel tempo digitale, non si può rinvenire né fissare alcun dove. [8] Faremo i nostri rilevamenti in un’altra dimensione temporale. L’eterno, secondo Spinoza (il filosofo più caro a Marx), è ora. Non è qualcosa che ci attende, bensì qualcosa che incontriamo in quegli istanti brevi e tuttavia senza tempo in cui tutto accoglie tutto e nessuno scambio è inadeguato. Nel suo libro pieno di urgenza, Hope in the dark, Rebecca Sonit cita la poeta sandinista Gioconda Belli, che descrive il momento in cui i nicaraguensi abbattono la dittatura di Somoza: “Due giorni che ci fecero sentire come se su di noi fosse sceso un incantesimo secolare, che ci riportava alla Genesi, al luogo stesso della creazione del mondo”. Il fatto che più tardi gli Stati Uniti e i suoi mercenari abbiano distrutto i sandinisti non diminuisce in alcun modo quel momento che esiste nel passato, presente e futuro. [9] Ad un chilometro dal punto in cui sto scrivendo, c’è un campo in cui pascolano quattro asini, due giumente e due puledri. Sono di una specie particolarmente piccola. Quando le tengono ritte, le orecchie dai bordi neri delle giumente mi arrivano al mento. I puledri, che hanno solo qualche settimana, hanno le dimensioni di grossi cani terrier, con la differenza che hanno la testa larga quanto i loro fianchi. Mi arrampico sulla staccionata e mi siedo nel campo, appoggiando la schiena al tronco di un melo. Gli asini hanno tracciato i loro sentieri attraverso il campo e alcuni passano sotto rami bassissimi dove io sarei costretto a piegarmi in due. Mi osservano. Ci sono due zone dove non cresce neanche un filo d’erba, solo terra rossastra, ed è in uno di questi anelli che più volte al giorno vanno a rotolarsi sul dorso. Prima la giumenta, poi il puledro. I puledri hanno già la loro striscia nera sulle spalle. Adesso mi si avvicinano. Odorano di asino e crusca - un odore diverso da quello dei cavalli, più discreto. Le giumente mi sfiorano la nuca con le mandibole. I loro musi sono bianchi. Intorno ai loro occhi ci sono delle mosche, molto più agitate dei loro sguardi interrogativi. Quando si fermano all’ombra sul margine del bosco le mosche volano via, e possono restare lì quasi immobili per mezz’ora. All’ombra, a mezzogiorno, il tempo rallenta. Quando uno dei puledri succhia il latte (il latte di asino è quanto di più simile ci sia al latte umano) le orecchie della giumenta si distendono all’indietro puntando verso la coda. Circondato dai quattro animali in pieno sole, la mia attenzione si fissa sulle loro zampe, su tutte e sedici. La loro sottigliezza, la loro esilità, la loro concentrazione trattenuta, la loro sicurezza. Le zampe dei cavalli al confronto sembrano isteriche. Sono zampe adatte a valicare montagne che nessun cavallo potrebbe affrontare, zampe capaci di trasportare carichi inimmaginabili se si considerano solo le ginocchia, gli stinchi, i nodelli, i garretti, il metacarpo, l’osso tra i due pastorali, gli zoccoli. Zampe d’asino. Si allontanano, a testa bassa, pascolando, le orecchie a cui non sfugge nulla. Li osservo, a occhi ben aperti. In quei nostri scambi, nella compagnia del mezzogiorno che vicendevolmente ci offriamo, c’è il sostrato di qualcosa che riesco a descrivere solo come gratitudine. Quattro asini in un campo, mese di giugno, anno 2005. [10] Sì, tra le altre cose sono ancora un marxista. John Berger, scrittore, drammaturgo e critico d’arte, è nato in Gran Bretagna nel 1926. Ha vinto il Bookerprize nel 1972 con il romanzo G. (Il Saggiatore 1996), una storia di lavoratori immigrati in Europa. Da più di vent’anni Berger vive in un piccolo villaggio delle Alpi francesi. In Italia sono usciti, tra gli altri: Fotocopie (Bollati Boringhieri 2004), Modi di vedere (Bollati Boringhieri 2004), Sacche di resistenza (Giano 2003), Sul guardare (Mondadori 2003), Una volta in Europa (Bollati Boringhi eri 2003), E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto (L’ancora del Mediterraneo 2002).