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Controcopertina: Polluce, il recupero 164 anni dopo ed il Dossier di Legambiente

Scritto da : Elena Maestrini
Pubblicato in data : venerdì, 09 settembre 2005

L'OPERAZIONE La Soprintendenza Archeologica della Toscana, con un contratto di sponsorizzazione firmato l’8 agosto 2005 ha affidato a The Historical Diving Society Italia (HDSI) di Marina di Ravenna (RA) il recupero dei materiali preziosi presenti nel relitto del Polluce e di eventuali parti mobili dello scafo di interesse storico-navale. Il lavoro vero e proprio sarà effettuato dalla Marine Consulting Diving Contractors di Mezzano di Ravenna, azienda specializzata in lavori subacquei, con un “impianto d’alto fondale” ed una squadra di operatori tecnici subacquei in saturazione. La Capmar Studios di Roma, casa di produzione cinematografica specializzata in filmati e documentari subacquei, naturalistici e scientifici, effettuerà le riprese che serviranno a realizzare un documentario completo ed esaustivo sulla scorta dell’indagine storica raccolta nel libro “Operazione Polluce - L’Oro dell’Elba” di recente uscita. Il piroscafo a ruote Polluce della compagnia De Luchi Rubattino, a causa di un abbordaggio, apparentemente doloso, con il vapore della Compagnia di Navigazione Napoletana Mongibello avvenuto la notte del 17 giugno 1841, era affondato in 103 metri di fondale a cinque miglia da Longone (Porto Azzurro), isola d’Elba. Questo recupero si compie a 164 anni, e dal primo tentativo che l’armatore genovese mise in atto nel settembre dello stesso anno. Il Polluce è stato depredato, nel febbraio 2000, da un gruppo di avventurieri italo-inglesi durante un’operazione che prevedeva il recupero di alluminio nelle stive di un mercantile britannico affondato nel 1916 da un U-boat tedesco nelle acque di Stromboli. Nel complesso, pur preziosa, la parte di carico recuperato dagli avventurieri, e confiscato dai Carabinieri Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, è modesta (poco più di 2000 monete ed una collezione di gioielli). Le notizie storiche ci riportano essere 100 mila monete in oro e 70 mila in argento, di cui una buona parte si stima sia ancora all’interno del relitto. La vicenda dell’affondamento di questa nave, avvenuto a due mesi dalla sua entrata in servizio, la scomparsa del suo ricco carico non dichiarato nelle polizze di carico, il conseguente processo che ebbe un’eco internazionale, era in pratica stata cancellata dalla storia tanto è vero che il Polluce negli annali della De Luchi Rubattino (armatore noto per le navi dei Mille) è ricordato sempre e solo con poche righe. Al suo posto era nata una leggenda: quella della Carrozza d’oro di Ferdinando IV alla cui ricerca, nei primi trent’anni del ‘900, molti impiegarono forze e risorse. L’attuale programmata operazione di recupero raccoglie in sé alcune importanti novità: - sarà il recupero archeologico subacqueo più profondo effettuato finora in Italia da operatori tecnici subacquei in saturazione con l’ausilio delle stesse tecnologie adottate nella ricerca sottomarina delle scatole nere nei disastri aerei; - è la prima volta che un’azienda privata italiana sponsorizza un progetto di recupero di beni artistici e culturali in ambiente marino. Da non dimenticare inoltre che il relitto del Polluce, con il suo carico depredato, è l’unico tesoro sottomarino che si sia fino ad ora ritrovato in acque nazionali. Il recupero avviene in collaborazione con il Mi.B.A.C. -Dipartimento per Beni Culturali e Paesaggistici Direzione Generale per i Beni Archeologici – Sezione Tecnica per l’Archeologia subacquea- la Direzionale Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale L'Ufficio Stampa IL DOSSIER DI LEGAMBIENTE La razzia del tesoro custodito nel relitto della nave a ruote “Polluce” è nota nel suo triste epilogo, ma è sostanzialmente sconosciuta nei suoi presupposti, cioè nei fatti che l’hanno resa possibile. Il circolo LEGAMBIENTE Arcipelago Toscano - che alle ricchezze archeologiche elbane ha sempre dedicato attenzione divulgando anni fa il dossier SOS ARCHEOLOGIA ALL’ELBA sui pericoli che stavano correndo importanti siti - oggi ritiene suo dovere civico e morale inviare alla stampa e all’opinione pubblica un nuovo dossier contenente gli inquietanti documenti raccolti su richieste, autorizzazioni, mancati accertamenti e prescrizioni inesistenti collegati a nave Polluce, insomma su tutto ciò che ha spianato la strada al trafugamento del secolo: il furto di decine di migliaia di monete d’oro e d’argento, di una miriade di straordinari gioielli prevalentemente di produzione italiana e spagnola, di una collezione di diamanti, rubini, smeraldi, in una parola un immenso tesoro, valutato in centinaia di miliardi delle vecchie lire. Senza contare la distruzione totale di un tesoro ancora maggiore, di valore incalcolabile, cioè il carico di storia risorgimentale che il Polluce celava in fondo al mare, a 103 metri di profondità. Breve storia dell’affondamento Ecco, in breve, la storia dell’affondamento del Polluce. Sono le 23,30 circa del 17 giugno1841. Il tempo è buono e la nave portavalori “Polluce” della compagnia De Luchi e Rubattino, salpata da Napoli e diretta a Marsiglia, procede tranquilla al largo di Capo Calvo (costa orientale dell’Elba). A bordo ci sono anche personaggi di alto rango appartenenti all’aristocrazia italiana, russa e inglese. Il giornale “Semaphore” di Marsiglia, nell’edizione del 30 giugno 1841 nomina la contessa russa D’Uxhull che portava al seguito cinquantamila franchi in oro e molti oggetti di grande valore; la duchessa napoletana Della Rocca, che aveva con sé oltre trentamila franchi in oro e una carrozza; il capitano d’artiglieria russo Taharichoff che trasportava ventimila franchi in oro e una notevole collezione di pietre preziose. All’improvviso sulla rotta del “Polluce” si para il piroscafo “Mongibello”, che appartiene di fatto al Regno delle Due Sicilie, opera sulla stessa tratta ed in quel momento sta seguendo la rotta Nord/Sud . Urla e segnalazioni non servono a nulla. La prua del “Mongibello” si infila sulla fiancata di babordo del “Polluce”. Seguono pochi minuti di concitazione durante i quali equipaggio e passeggeri della nave speronata riescono a salvarsi sul “Mongibello”. Muore una sola persona. Poteva andare molto peggio, anche perché la profonda falla fa inabissare il Polluce in meno di un quarto d’ora. C’è chi pensa, forse a ragione, che l’urto non sia stato casuale perché il “Polluce” avrebbe portato il denaro – molto – raccolto in varie parti del mondo per finanziare le attività mazziniane. Di certo c’è che il “Polluce” trasportava monete di una pluralità di Stati ( Vaticano, Genova, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Colombia, Cile, Messico, Perù ). Di certo c’è che nella causa giudiziaria che seguì gli interessi della compagnia De Luchi e Rubattino furono curati da Domenico Guerrazzi. Ma non sarà possibile sapere di più perché, come vedremo, lo scafo del “Polluce” è stato squartato da una potente benna e con esso la storia e i segreti che racchiudeva. Che il Polluce avesse nelle sue stive un grande tesoro lo si sapeva già al momento dell’affondamento, tant’è che pochi mesi dopo fu tentato invano il recupero della nave con grande spiegamento di mezzi. E la fama del tesoro non si è mai spenta, visto che negli anni trenta del XX secolo perfino il celebre Artiglio di Viareggio si dedicò a un nuovo quanto infruttuoso tentativo di recupero. Appunti sul furto del tesoro Nel febbraio–marzo 2000, dopo aver conseguito le autorizzazioni richieste, una banda di trafugatori inglesi si posiziona sulla perpendicolare del “Polluce” con un rimorchiatore di 60 metri affittato a Genova e munito di una potente gru e di una benna altrettanto potente con cavi di acciaio tanto lunghi da poter arrivare ad oltre cento metri di profondità. La benna massacra la struttura lignea del Polluce fino ai paramezzali lasciando alla fine solo uno scheletro. Sulla coperta del rimorchiatore vengono riversate tonnellate di fango e acqua da cui spuntano migliaia di monete e gioielli. I ladri operano indisturbati per oltre un mese. Tutto questo nel periodo invernale, quando al largo delle coste elbane, prive di traffico da diporto, è facile notare anche un gozzetto, nessuno vede, nessuno sente, nessuno va a controllare cosa succede. La banda, fiera del proprio successo, riconsegna il rimorchiatore a Genova e, ancora una volta in assoluta tranquillità, trasferisce a Londra il tesoro rubato. Poco più di un anno dopo - giugno 2001 - esce un catalogo d’asta nella cui prefazione sono scritte autentiche prese per i fondelli come “abbiamo fatto un buon lavoro”. Al contempo vi si annuncia la vendita del tesoro della “Santa Lucia”, consistente in 306 lotti per un totale di 2311 monete d’oro, d’argento e di bronzo, decine di gioielli e di pietre preziose, manufatti vari in vetro e ceramica (altra testuale presa in giro: “ Tutti gli oggetti sono venduti con certificato di garanzia”). Fra i gioielli spiccano per qualità e bellezza due eccezionali pezzi in oro a 18 carati tempestati di smeraldi: si tratta di una spilla (n. 232 di catalogo) e di un pendente a croce (n. 250), entrambi di manifattura spagnola del 1750 circa. Il tentativo di vendita non sfugge all’occhio vigile della polizia londinese che interroga i trafugatori e pone sotto sequestro il materiale prima dell’asta. La difesa dei ladri, a quanto pare rafforzata dall’esibizione delle autorizzazioni rilasciate dalle autorità competenti (!?), è che il tesoro è stato trovato all’interno del piroscafo britannico “Glenlogan”, nel mare orientale dell’Elba. Ma non ci vuole molto tempo al solerte ispettore per documentare che il “Glenlogan” non ha niente a che fare con l’Elba perché risulta affondato a più di 1000 metri di profondità nel 1916 a sud di Stromboli, cioè a circa 600 km di distanza, e conteneva barre di piombo. La brillante operazione di polizia è completata dai Carabinieri del Nucleo fiorentino di Tutela del Patrimonio Artistico, i quali riescono a recuperare i pezzi descritti in catalogo e a farli rientrare in Italia. Ma per poter rientrare in possesso di almeno questi oggetti, il Governo italiano è costretto a garantire l’impunità ai quattro trafugatori Inglesi. Sono in molti a credere che il complesso di manufatti illustrati in catalogo rappresenti una parte esigua del materiale rubato, anche perché i trafugatori hanno avuto a disposizione un tempo molto lungo - 48 giorni, per la precisione - per il loro “lavoro”. Inoltre sono proprio loro che affermano soddisfatti “la sezione anteriore e posteriore al vano motore è stata ripulita a fondo …”. In altre parole, la coperta e le stive di prua e di poppa sono state svuotate dei loro contenuti ed è lì – non certo in mezzo ai motori e alla timoneria - che era ricoverato il tesoro menzionato dal “Semaphore” di Marsiglia. La lettura del catalogo offre un’altra preoccupante notizia: a coordinare le “operazioni” a danno del “Polluce” e del suo prezioso carico è nientemeno che Pascal Kainek, un famigerato ricercatore di tesori, tenuto d’occhio da tutte le Polizie internazionali. Una e-mail datata 10 luglio 2003 afferma che egli è stato espulso anche dall’Indonesia a causa delle sue ricerche illegali sui relitti. Su questa intricata vicenda viene addirittura presentata - il 6 aprile 2004 nella seduta n.450 della Camera dei Deputati - dall’Onorevole Marco Lion (Verdi) una Interrogazione a risposta scritta - 4-09680 - Al Ministro per i beni e le attività culturali ed al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio Le autorizzazioni e i relativi documenti Se in Indonesia le ricerche sottomarine di Kainek & C. erano illecite e condotte di nascosto, all’Elba e sul “Polluce”, al contrario, si presentavano con il crisma della legittimità, nonostante che i Beni Culturali italiani siano protetti da una delle più restrittive legislazioni del mondo. Vediamo come è potuto succedere, elencando in ordine cronologico l’incredibile sequela di richieste e autorizzazioni: - il 14 ottobre 1999 il Console britannico di Firenze chiede a nome dei legittimi proprietari alla Capitaneria di Porto di Portoferraio l’autorizzazione a recuperare il relitto e il carico del piroscafo inglese “Glenlogan”, affondato nel corso della prima guerra mondiale; vengono invocati gli articoli 501 e 507 del codice della navigazione; la richiesta appare corretta, salvo il fatto che il relitto del “Glenlogan” non si trova affatto nell’Arcipelago Toscano e nelle acque di competenza della Capitaneria di Portoferraio, ma nelle isole Eolie, in Sicilia; - il 30 ottobre 1999 la Capitaneria di Portoferraio trasmette l’intera pratica alla Soprintendenza ai Beni Archeologici di Firenze e alla Soprintendenza ai Beni Architettonici di Pisa “per eventuali pareri/prescrizioni di competenza”; l’atto è molto corretto perché se è vero che ai sensi dell’art. 501 del codice della navigazione i proprietari hanno in ogni tempo il diritto all’assunzione del recupero, è altrettanto vero che le Soprintendenze hanno il diritto/dovere di presenziare all’atto per valutare se gli oggetti recuperati in acque demaniali abbiano o meno valore storico-archeologico; occorre sottolineare, però, che nemmeno la Capitaneria si preoccupa di verificare se alle coordinate geografiche indicate ci sia davvero il “Glenlogan”; - il 12 novembre 1999 la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Firenze concede il nulla osta al recupero; il lasso di tempo - 13 giorni - che intercorre fra la richiesta della Capitaneria e la risposta della Soprintendenza sembra solo apparente: i timbri apposti sui documenti dimostrano che, in realtà, la lettera è registrata in arrivo alla sede centrale di Firenze il 4 novembre e da lì è inviata all’Ufficio distaccato di Pisa, dove la responsabile Silvia Ducci la riceve e firma l’ 11 novembre; il giorno dopo, 12 novembre. Nonostante la complessità della pratica, parte l’autorizzazione senza alcuna prescrizione, con la singolare avvertenza che “qualora nel corso delle operazioni suddette dovessero verificarsi ritrovamenti di carattere archeologico, gli operatori subacquei sono tenuti a darne immediata comunicazione a questo Ufficio”; Domanda: il compito di valutare l’interesse archeologico di ciò che si trova spetta all’Ufficio o a un subacqueo qualsiasi?; - l’atto non è firmato dal soprintendente dott. Angelo Bottini, ma da qualcuno – la cui firma non è decifrabile – in sua vece; però è ben leggibile in basso a sinistra la sigla dell’estensore, SD/ (Silvia Ducci, responsabile territoriale per i beni archeologici dell’isola d’Elba); - il giorno 1 dicembre la Soprintendenza per i beni architettonici di Pisa rilascia a sua volta il nulla osta; tale autorizzazione ha una rilevanza del tutto minore rispetto a quella della Soprintendenza Archeologica perché spetta a quest’ultima controllare recuperi e scavi in aree demaniali; - il 19 gennaio 2000 la capitaneria di Portoferraio, visti i pregressi nulla osta, concede l’autorizzazione, a partire dal 27 gennaio e per la durata di 30 giorni, alla Società TS Tecnospamec s.r.l. di procedere al “recupero del relitto e del relativo carico della nave denominata Glenlogan di bandiera britannica; le operazioni saranno svolte all’interno di una circonferenza di raggio 0,5 miglia centrate nel punto di coordinate 42° 44.5’ N- 010° 30,5’ E”; - il 20 gennaio 2000 la Capitaneria comunica correttamente alle due soprintendenze – quasi come un ulteriore invito al controllo diretto - che i lavori di recupero inizieranno il 27 gennaio 2000; - il 26 febbraio 2000 la Capitaneria concede alla suddetta società Tecnospamec una proroga al recupero fino a tutto il 15 marzo 2000. L’epilogo è noto: forte delle citate autorizzazioni, la banda di trafugatori agisce senza indugi e forse entrerà trionfante nel Guinness dei primati per aver razziato in assoluta libertà uno dei più grandi tesori del mondo. “Siamo stati imbrogliati”. Ma era davvero impossibile evitarlo? Dopo il sequestro di parte del bottino a Londra, esplode il caso del trafugamento e, mentre le altre Autorità tacciono, la Soprintendenza Archeologica di Firenze prova a difendersi in un’intervista pubblicata nel giornale “Il Tirreno” del 15 dicembre 2004. Il tentativo di porre riparo ad una pessima figura è del capo dell’Ufficio, l’allora Soprintendente Angelo Bottini, che però, come si è visto, non ha scritto né firmato in prima persona l’autorizzazione, stante il fatto che il problema “Polluce” è stato gestito dalla funzionaria Silvia Ducci responsabile territoriale per i beni archeologici delle isole livornesi da oltre venti anni. La Ducci è già salita alla ribalta delle cronache per il restauro/scempio perpetrato su uno dei gioielli dell’architettura marittima di 2000 anni fa, cioè la villa di Agrippa Postumo, nipote dell’imperatore Augusto, nell’isola di Pianosa. La Ducci asserisce di aver fatto un ottimo lavoro, ma personalità di livello nazionale e internazionale, fra cui il direttore generale del Forum Unesco, affermano che si è trattato di una cementificazione intollerabile. L’intervento di “restauro” è diventato un cattivo esempio da mostrare anche al recente congresso internazionale de Il Cairo (14-17 maggio 2005) dove sono state proiettate le immagini shock di come è stata ridotta la famosa villa romana. Ma ritorniamo al Polluce. Bottini ammette fra l’altro : “I permessi sono stati dati ma non certo per andare sul Polluce … siamo stati vittime di un imbroglio”, a partire dalla la dottoressa Ducci che non ha avuto “la possibilità di rendersi conto che dietro c’era ben altro” … “a nessuno viene in mente che un carico di piombo della prima guerra mondiale abbia un valore archeologico. Il piano era perfetto, è stato studiato tutto in modo da farci sbagliare. E allora: o si dubita della nostra buona fede …”. Nessuno ha dubbi sulla buona fede, né abbiamo difficoltà a credere che la Dottoressa Ducci sia stata imbrogliata, che abbia sbagliato in maniera clamorosa. Ma il piano era davvero così perfetto? Era davvero impossibile capire le reali intenzioni dei malfattori? Vediamolo non con il senno di poi, ma con il senno di prima, cioè con i dati di fatto che dovrebbero essere a conoscenza, per bagaglio scientifico o per approfondimento del momento, di chi da moltissimo tempo ha responsabilità diretta degli scavi e delle ricerche sull’isola e che dell’isola, in terra e in mare, dovrebbe conoscere anche i fili d’erba. Eccoli, i dati di fatto : 1) sulle circostanze e sulla zona dell’affondamento del Polluce esiste una vasta letteratura, anche locale; 2) sul punto nave di inabissamento del Polluce, le moderne carte nautiche e da pesca segnalano la presenza di un veliero; a puro titolo di esempio si possono citare il libro “Il fondo del mare da Piombino al promontorio dell’Argentario” edito nel 1962 dal Ministero della Marina Mercantile, p. 61 n. 26; oppure la diffusissima Carta da pesca e dell’ambiente marino, 1989 e anni seguenti, n. 116; non sono dati sufficienti per mettere sull’avviso quando qualcuno chiede di recuperare un relitto con quelle coordinate geografiche ? 3) sul punto nave di inabissamento del britannico “Glenlogan”, trattandosi di un fatto di interesse storico, esiste una letteratura accessibile a chiunque: a titolo di esempio il libro “British Vessels lost at the sea 1914-1918” chiarisce che il piroscafo “Glenlogan” di 5838 tonnellate di stazza fu silurato e affondato il 31 ottobre 1916 dieci miglia a sud-est di Stromboli; e ancora : le informazioni storiche della Glen Line recitano testualmente : “On 31st October 1916 the Glenlogan was torpedoed by U-21 10 miles south-east of Stromboli”; forse è opportuno aggiungere che la profondità della zona indicata è di oltre mille metri; 4) la Soprintendenza sapeva che le stive del “Glenlogan” erano piene di piombo: era forse illogico domandarsi quale ritorno economico, quale generica utilità potevano avere gli Inglesi a recuperare un carico di piombo a 103 metri di profondità, impresa difficile e costosissima? 5) nella denuncia del console britannico il “Glenlogan” (alias “Polluce”) è indicato come un relitto della prima guerra mondiale; oggi la normativa vigente - art. 50, comma 2 del Decreto Legislativo 42/2004 - stabilisce che “è vietata, senza l’autorizzazione del soprintendente, …la rimozione di cippi e monumenti, costituenti vestigia della Prima guerra mondiale”, ma l’interesse storico era già palese e fuor di dubbio anche nel novembre 1999, allorché, come si è visto, fu rilasciata l’autorizzazione senza condizioni; perché non fu prescritto che il recupero sul Glenlogan/Polluce fosse seguito e controllato da personale tecnico scientifico della soprintendenza archeologica o comunque di fiducia della stessa ? Eppure nel modello di nulla osta della Soprintendenza Archeologica nel gennaio 1998, quasi due anni prima dell’ormai famosa autorizzazione sul “Polluce”, si prescriveva con estrema correttezza che “la data di inizio lavori dovrà essere concordata con questo ufficio per iscritto in modo da assicurare la presenza di personale di questo ufficio che valuterà l’interesse archeologico”. Perché non è stato fatto altrettanto per il Polluce? Non si può non rilevare con amarezza che sarebbe bastata questa prescrizione, peraltro di prassi, per buttare all’aria e annullare il cosiddetto piano perfetto. L’appello di Legambiente Arcipelago Toscano Il fatto è troppo eclatante per lavarsene le mani, o per dire tutto è bene ciò che finisce bene, visto che proprio bene per il “Polluce” devastato non è finita.. L’Elba e le isole toscane hanno troppo bisogno dei propri beni culturali per la loro crescita socio-culturale ed economica. Per questo il circolo Legambiente Arcipelago Toscano, che teme seriamente che altre ricchezze archeologiche possano subire la stessa sorte del Polluce e della villa romana di Pianosa, rivolge un doppio appello. Il primo è diretto alla responsabile per i beni archeologici di Elba, Pianosa, Capraia, Gorgona, Montecristo:: dopo quanto successo, abbia il coraggio di farsi da parte, di lasciare che sia un altro funzionario a preoccuparsi dell’immenso patrimonio archeologico delle isole. Il secondo appello è indirizzato ai cittadini, al Parco Nazionale, ai Sindaci, alla Comunità Montana, alle Forze Politiche e alle Associazioni: almeno quel che rimane del tesoro del Polluce deve rimanere all’Elba. Magari in una struttura museale che ad oggi non risulta essere prevista dal recente protocollo di intesa firmato per il recupero subacqueo e la gestione successiva del materiale artistico - archeologico. In futuro cerchiamo di essere tutti più vigili, non lasciamoci portar via senza fiatare beni che rappresentano le nostre radici, la nostra storia, il nostro futuro. Chiediamo con forza di contare di più nella loro salvaguardia e nella loro valorizzazione; manifestiamo il nostro dissenso contro chi – come nel caso del Polluce - li ha gestiti troppo spesso con superficialità e arroganza.


polluce

polluce

polluce rilievo

polluce rilievo

polluce dipinto

polluce dipinto