Einaudi Tascabili, Torino 1994 E’ un libro assolutamente poetico, che racconta attraverso cinque dialoghi la storia quasi segreta dell’ebraismo, soprattutto il legame intimo e personalissimo dei protagonisti con la loro religione, le loro origini, le tensioni più profonde. I cinque dialoghi sono in effetti monologhi, perché l’altro interlocutore non appare mai direttamente, si fa da parte dando al narratore anche il suo spazio e la sua voce, come un doppio filo interiore che racconta una storia nello stesso tempo individuale e collettiva. E’ la saga di un’antica famiglia ebraica narrata senza tenere conto della successione temporale che dà alla struttura un andamento irregolare, illusorio, disperso. Con un senso del precario che è emblematico di tutta la storia di un popolo. I protagonisti sono diversissimi e attraversano periodi storici molto lontani tra di loro, ma l’olocausto per quanto presente, non è il solo filo conduttore. Il senso tragico del tempo diventa un insieme che raccoglie anche ricchezza spirituale, profumi, sensualità, utopie e speranze. Sullo sfondo, grande quanto il cielo, la visione talvolta mistica, contingente, disperata, misteriosa, di Gerusalemme, la città contesa e condivisa, fatta a pezzi e ricomposta mentalmente ognuno secondo le proprie lacrime. Tendere verso Gerusalemme non significa imbracciare un fucile, o cavalcare un carro armato; e neanche pronunciare a sproposito la parola “shalom”, che spesso significa pace da una parte soltanto. Yehoshua ci svela, con tutta la sua prosa preziosa, che cosa è Gerusalemme per un Ebreo. Nessun fanatismo, nessuna sopraffazione. E’ fermare la propria vita in un punto del mondo, concedere al tempo anche uno spazio. E’ pregare in una sinagoga, e ripararsi dal sole all’ombra possibile di qualsiasi minareto.