“Questo papa è stato grandissimo. Ma la missione che intraprese venticinque anni fa è fallita. Da non credente lo dico con rispetto e rimpianto perché una ripresa reale dell’afflato cristiano avrebbe in qualche modo fertilizzato la modernità, i suoi contrasti, la sua vitalità intellettuale e morale; avrebbe contribuito ad arrestarne la desertificazione in atto”. Traggo da uno splendido articolo di Eugenio Scalfari su “la Repubblica” di oggi –invito a leggerlo per intero- questo brano che rende giustizia alla vita e alla morte di Giovanni Paolo II. Lo stupido trionfalismo dei commentatori televisivi, pubblici e privati, sta facendo un terribile rumore, seguendo l’abitudine di una vocazione servile a credere che sia sufficiente parlare di vittoria per produrla: stanno sbagliando tutto; perché il papa non è un leader da spingere o da ‘promuovere’. Questo papa, poi, non lo è stato in modo singolare; e quando ha ritenuto di doverlo fare, lo ha ben saputo fare da solo, forse quanto nessun suo predecessore, grazie anche alla disponibilità straordinaria di mezzi di comunicazione. La sua morte, che è stato evento condiviso, pubblico, ha riassunto il dramma della sua vita e della sua testimonianza. Meritava rispetto e riflessione, non l’esibizione di talk show postelettorali (o preelettorali). Anch’io, da non credente, lo dico con rispetto e rimpianto: Giovanni Paolo II ha compiuto la sua vita nel dolore della croce, come si legge di Gesù nei racconti evangelici. La croce del dolore del corpo straziato, ancora ‘scandalo’ per chi lo conosceva condottiero e trascinatore. La croce della frustrazione di un progetto perseguito con ogni risorsa e tuttavia fallito, come spiega Scalfari. La croce della delusione di vedere tanti suoi improvvisati discepoli –mai come in questi giorni si sono sprecate professioni di fede non richieste di giornalisti e intrattenitori- litigare ancora per rivendicare il posto più vicino a lui nella gloria (era successo anche con gli Apostoli). E allora, ecco la gara demente dei “c’ero anch’io”, “una volta mi ha detto”, “quando l’ho intervistato”, ecc., per far ridondare sopra di sé i trionfi subito enunciati: “è stato il papa dei giovani” –ma quanto avrebbe dato Giovanni Paolo per avere in piazza San Pietro uno solo dei giovani dei Centri Sociali, o delle discoteche, dello stordimento nei suoi mille rivoli, della violenza gratuita, dei suicidi-; i “papa boys” erano già suoi, ultima versione degli “arditi della fede, araldi della croce” di pacelliana memoria; avrebbe voluto gli altri, e per loro avrebbe ucciso il vitello grasso. “E’ stato il papa del richiamo alla vita” –ma con quanto dolore ha continuato a cercare un richiamo efficace contro la logica di morte che pervade questa “epoca delle passioni tristi” (come recita il titolo di un bellissimo libro di Benasayag), per rifugiarsi disperato e sconfitto in un formalismo giuridico che non ha convertito nessuno. “E’ stato il papa della pace” –ma con quale sofferenza quel “costruttore di pace” ogni giorno doveva ascoltare gli echi delle guerre che sconvolgono il mondo, rendendo sordi i popoli a ogni “parola di vita eterna”. “E’ stato il papa della vittoria sul comunismo” (e su questo il trionfalismo degli oratori nostrani si è scatenato senza pudore) –ma con quale immensa tristezza, peraltro dichiarata, ha dovuto volgere lo sguardo verso la società ex sovietica di oggi; con quanta amarezza ha dovuto leggere ogni giorno delle decine di migliaia di giovani donne slave operanti sul mercato del sesso, senza libertà e senza dignità, e presto senza più salute, illuse dal miraggio di una società opulenta e disumana-. “E’ stato un grande pontificato, sarà difficile per il successore raccoglierne l’eredità”: lo dice anche Scalfari; ma io ritengo di dover dissentire. Quando morì Pio XII si disse che, nel bene e nel meno bene, era stato grandissimo, e sarebbe stato difficile essere alla sua altezza. Venne Giovanni XXIII, e sconvolse il mondo; alla sua morte si ripeté un’analoga profezia. Venne Paolo VI, e sconvolse la Chiesa. Il suo successore ritenne di dover prendere il nome di Giovanni XXIII e di Paolo VI, e si chiamò Giovanni Paolo I, per annunciare che avrebbe voluto essere come entrambi i suoi predecessori; morì dopo pochi giorni. E finalmente è venuto Voityla. Dopo di lui la storia continua, perché la Chiesa è più grande, nel bene e nel meno bene, di ogni papa. Si è proposto di chiamarlo “Magno”: credo che ne sarebbe stato scandalizzato; poiché, in fondo, ha colto e messo a frutto l’eredità ricevuta dai predecessori. Poi, la morte. Gli ultimi giorni ce lo hanno mostrato testimone autentico del suo Maestro, l’insegnamento del quale ha informato tutta la sua vita: è morto in croce, sconfitto, umiliato –questa è la vera gloria: lo scandalo della croce, come dice l’apostolo Paolo-, nell’indifferenza dei più (non i milioni che c’erano, ma i miliardi “ancora” lontanissimi). Ha salito il suo calvario nel sofferto silenzio della sua fede, indicando il percorso della speranza come fertile frutto dell’amore. Così una nuova vita sconfigge la morte. Questo il dono offerto con drammatica semplicità a tutti coloro che –credenti o non credenti- si pongono in ascolto, animati da buona volontà. Il resto è la solita chiassosa convention.
papa san pietro