Caro Sergio, Cara Redazione, è doveroso in primo luogo che Io mi presenti. Sono Lorenzo Calvani, sono avvocato, risiedo all’Elba da dieci anni. Sono assiduo lettore di Elbareport perché, pur non condividendo sempre le vostre opinioni, vi sono comunque “vicino”, mi siete molto simpatici, ed anche perché, trovandomi per lavoro molto spesso fuori dall’Isola, in varie occasioni è stato grazie il Vostro sito che sono riuscito a “mantenere il contatto”. Sono nipote di una profuga istriana. Vittima del titismo e di quello che ha rappresentato nell’immediato dopoguerra. Nessun “infoibato” in famiglia, probabilmente solo grazie al fatto che nessuno dei miei parenti, nemmeno durante l’odioso ventennio, si è mai macchiato del luridume del fascismo. Anzi. Mio nonno, professore e docente nella bella e martoriata terra d’Istria, era socialista e dovette subire sulla propria pelle, in diverse occasioni, le conseguenze del proprio credo politico e la rappresaglia per il proprio ostinato ed ostentato rifiuto di aderire al partito nazionale fascista. Tuttavia nemmeno la mia famiglia è stata risparmiata dalla persecuzione titina. I miei bisnonni costretti ad abbandonare tutto. A subìre l’umiliazione dell’esilio. A perdere il frutto di tanti anni di sacrifici. A morire guardando Pirano d’Istria, da cui provenivano, solo in lontananza, da Trieste, senza nessuna speranza di potervi tornare. E non perché erano “nemici del popolo”. Né fascisti (non lo sono mai stati). Ma solo – questa è la verità – perché erano “italiani” (e su questo comprendo ma non condivido del tutto quanto afferma “Tiro Fisso” dalle pagine del Vostro quotidiano). Prova ad immaginare, caro Sergio, che qualcuno Ti costringa a fuggire a Piombino privato di ogni cosa e a guardare la nostra isola amatissima solo da Piazza Bovio, lì ad un tiro di schioppo, sapendo che nulla e nessuno Ti potrà consentire di rimettervi piede. Potrai avere una qualche idea dello strazio che ha tormentato, per tutti gli anni che gli sono rimasti da vivere, l’avo da cui ho preso il nome. Ebbene, ora posso “stupirvi”, sono comunista. Lo sono da sempre. Da quando ero piccolo. Da quando ho capito che tra me e i “padroni” (mi piace, malgrado tanto revisionismo, prendermi la libertà di chiamare le cose col loro “vero nome”) non poteva esserci nulla in comune. Lo sono da quando ho avuto l’età per comprendere il significato della Resistenza. Lo sono da quando ho avuto l’età per comprendere i sentimenti di Ernesto Guevara De La Serna. Lo sono da quando ho conosciuto e condiviso la passione e il pensiero di Enrico Berlinguer. Sono e mi professo uomo di sinistra e comunista, anche se sono molto distante dagli attuali partiti di sinistra (compresi quelli che ancora si “dichiarano” comunisti nella propria denominazione). Ho molto gradito e mi sono riconosciuto nelle Vostre parole, allorché avete censurato le assurde espressioni di chi, senza alcuna reale coscienza critica, ha ritenuto di poter fare un parallelismo tra nazismo e comunismo. Ho maturato la convinzione che il nazismo sia stato solo violenza e follia omicida, senza alcuna possibile “evoluzione”. E lo è ancor oggi. Risultando persino grottesco che qualcuno possa ancora professare simili devianti elucubrazioni. Non nego le violenze e i crimini perpetrati nel nome del comunismo. Né potrei farlo proprio Io, che di quei crimini ho conosciuto personalmente anche le vittime, miei parenti strettissimi. Così come nessun buon cristiano (ed il Papa in questo è un esempio per tutti) nega la violenze ed i crimini perpetrati nel nome del cristianesimo. Ma penso che solo ignoranti e “ciechi” (ovviamente non mi riferisco a chi è fisicamente “cieco” ma “ci vede” benissimo) possano identificare comunismo e Stalin, comunismo e Tito e via dicendo. Solo un ignorante può non comprendere l’evoluzione che il comunismo ha subìto. Anche in Italia. Da Gramsci, a Togliatti, a Berlinguer. Ma comunismo e Berlinguer non li identifica più nessuno. E – cosa ancor più triste – nemmeno la sinistra. Però non si può pensare che la storia non esista o vada solo in una direzione. C’è stato Stalin e c’è stato Tito. Ma – non può essere negato – c’è anche molto altro. Sono originario di Parma dove ancora vive la mia mamma in una strada che si chiama Via Giuseppe Picedi Benettini. Chi era? Da bambino ero affascinato da quella “targa” che campeggiava sul marciapiede di casa: “Via Giuseppe Picedi Benettini, Partigiano, 1923-1944”. Mi affascinava per quella data di nascita: 1923. Lo stesso anno in cui era nato mio papà. Ma papà era lì, di fianco a me, a raccontarmi di quando era stato costretto a rimanere nascosto dal settembre del 1943 al giugno del 1944, a Roma, insieme ad un gruppo di altri ragazzi e di ebrei in una soffitta della zona Tiburtina perché i tedeschi fucilavano i giovani che rifiutavano di arruolarsi nella Guardia repubblichina. Invece quel Giuseppe Picedi Benettini non era lì. Non poteva raccontarmi nulla della guerriglia nel Bercetese. Era solo un nome e due date in una targa: 1923-1944. Chi era Giuseppe Picedi Benettini? Chi quello sconosciuto che mi costringeva ogni volta a ripetere e scandire le lettere del mio indirizzo perché veniva storpiato in “Piccoli Benedettini” o altre amenità del genere? Così avevo scoperto che era un giovane della “Parma bene”, nobiltà benestante terriera originaria della Liguria che annoverava tra i propri avi persino un Vescovo. Un giovane che tuttavia aveva sentito il dovere di abbandonare gli agi, appena ventenne, e salire in montagna, in nome delle proprie idee e della Libertà: non solo la “sua”. Per quella Libertà, Giuseppe Picedi (nome di battaglia “Penola”) aveva combattuto fino al giorno in cui, vittima di un tradimento, aveva consumato insieme ad altri compagni il proprio sacrificio nell’Eccidio del Comando Unico Partigiano della Provincia Parmense, ad opera di tedeschi e repubblichini, il 17 ottobre del 1944 a Bosco di Corniglio. Non ho certezze, anzi ho qualche dubbio, circa la “fede comunista” di Picedi Benettini. Dovrei avere il tempo di tornare a Parma e ricercare negli archivi dell’Istituto per la Resistenza. Ma non ho dubbi circa la “fede comunista” di un suo compagno, vittima del medesimo eccidio: Gino Menconi. Rimasto soltanto ferito nello scontro. Nazisti e repubblichini preferirono bruciarlo vivo, legato alla branda della stanza in cui giaceva. Questo, ritengo, sia il Comunismo. E nessuno può convincermi che abbia qualcosa anche di solo lontanamente paragonabile al nazismo. Perché tutto questo? Perché trovo ignobile persino la semplice idea di proibire e bandire bandiere rosse e falce e martello. Posso comprendere che chi ha solo conosciuto i crimini perpetrati col paravento di questi simboli ne chieda la soppressione. Non posso comprendere e giustificare, invece, che altri che hanno conosciuto, anche di persona, chi ha testimoniato fino al sacrificio della propria vita il profondo significato di libertà, giustizia, pari dignità sociale, lotta allo sfruttamento, tutela dei più deboli che in questi simboli è incarnato, si prenda la libertà di tradire persone come Giuseppe Picedi Benettini o Gino Menconi, che lo hanno reso libero, rinunziando a spiegare a chi questi fatti non conosce che Comunismo non è solo quello che alcuni criminali gli hanno insegnato a credere. Posso solo dire che se veramente si arrivasse a proibire i simboli di chi ha speso la propria vita nei campi (la falce) e nelle fabbriche (il martello), parificandoli ai simboli della violenza e della morte (la svastica), farei quello che fece il mio nonno socialista: lui rifiutò di indossare il simbolo del fascio; io appunterei la falce e il martello in ogni mio abito. Due comportamenti opposti? No. Proprio la stessa cosa. Un caro saluto. Lorenzo Calvani (nella foto "Falce e Martello" di Tina Modotti) Caro Lorenzo Quello che hai scritto mi ha commosso, non mi vergogno a dirlo a questa età quasi veneranda,perchè sono convinto che aveva ragione Ernesto Guevara quando affermava "Occorre inturirsi nella lotta mantenendo intatta tutta la propria tenererezza". Ti ringrazio per le sensazioni che mi ha dato leggerti e perchè mi hai fatto tornare in mente una frase che mio padre (comunista pure lui è un vizio di famiglia) "i comunisti sono uguali agli altri ma devono sforzarsi di essere i meglio, i meglio operai i meglio professori, i meglio in tutto". Nessun tristo coglione, ignorante della storia dell'uomo e delle sue idee, riuscirà ad assimilare, per quanto cattivo uso se ne possa essere fatto, la falce e il martello, gli emblemi del lavoro quindi della vita, dell'eguaglianza, alla svastica, segno della diversità, della sopraffazione e della morte.
falce e martello modotti